Una sentenza storica in Toscana apre nuovi scenari nei risarcimenti
di Serena Trivelloni
Un posto sicuro, ma anche giustizia. E’ quello che chiedono i familiari delle vittime di eternit e amianto che per anni, in diverse parti di Italia, hanno lavorato nelle fabbriche in condizioni precarie ed estremamente dannose per la propria salute. E’ di oggi la notizia di una sentenza storica in Toscana, per cui ad un operaio di 73 anni è stata riconosciuta una rendita per malattia professionale a causa di una prolungata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro. Nel 2015 avrebbe contratto un carcinoma uroteliale bilaterale ed è stato sottoposto a due interventi chirurgici invalidanti, come rende noto l’Osservatorio Nazionale Amianto commentando la sentenza del Tribunale di Pisa.
Secondo Ezio Bonanni, difensore del lavoratore e presidente di Oma, la sentenza è storica: «l’amianto è stato ritenuto killer anche per i tumori delle vie urinarie, le sue fibre sono state ritrovate nelle urine dei lavoratori e nei carcinomi che hanno colpito l’operaio. Ci attendiamo quindi che i malati alle vie urinarie, e i familiari dei deceduti per queste malattie, ottengano il giusto riconoscimento previdenziale».
L’Inail ha inizialmente provato a respingere la sua istanza amministrativa per ottenere la rendita. A quel punto l’ex operaio ha deciso di rivolgersi a Bonanni che è riuscito a vincere il ricorso dimostrando il nesso di causalità tra l’esposizione alla fibra cancerogena e la malattia, ottenendo circa 500mila euro di arretrati. L’operaio aveva svolto le mansioni di magazziniere, movimentando materiali in amianto e in eternit, e successivamente aveva lavorato in siti nei quali l’amianto era interposto tra le strutture metalliche e i manufatti di vetro. L’ Inail ora è costretta a pagare, ma nessuno restituirà a quest’uomo l’integrità fisica e morale che ha perso respirando per anni materiali tossici e dannosi.
L’amianto in Campania
L’amianto e il suo smaltimento sono un problema irrisolto e le morti causate sono ancora troppe. Per quanto riguarda la Campania nei giorni scorsi è stato pubblicato il sesto rapporto Sentieri dell’Istituto Superiore di Sanità, che periodicamente fotografa lo stato di salute di quella parte della popolazione italiana (10% circa, circa 6.2 milioni di cittadini) costretta a vivere in luoghi inquinati da impianti industriali.
Non dobbiamo dimenticare mai che dei circa 6,2 milioni di italiani studiati da Sentieri in quanto residenti in zone considerate inquinate da impianti industriali, ben 1.86 milioni sono solo campani e di questi circa 450mila residenti in provincia di Caserta e circa 1.4 milioni in provincia di Napoli. L’ultimo rapporto di Legambiente sull’amianto informa invece che in Campania fino al 2018 erano circa 4000 le strutture dove era presente amianto, per un totale di circa 3 milioni di metri quadrati di coperture in cemento amianto.
Numeri che corrispondono a persone, lavoratori, intere famiglie esposte a un pericolo silenzioso, costante e inconsapevole, persone convinte che trovarsi «a casa» significhi automaticamente essere protetti e al sicuro. Ma se vivi in realtà come Acerra, Vairano Patenora, Casavatore, Arzano, Afragola, Caivano, Casoria ecc. «casa» non corrisponde solo a quelle che sono le tue radici e la tua storia. Tutto ciò che riguarda la questione dell’amianto, dell’eternit e della Terra dei fuochi in questi anni ha spazzato via e messo in crisi ogni certezza, colpendo di morte lenta migliaia di persone innocenti.
Un posto sicuro
«Un posto sicuro» è anche il titolo che nel 2015 il regista torinese Francesco Ghiaccio dà al suo film, dove si affronta il dramma dello stabilimento Eternit a Casale Monferrato, in Piemonte. Una realtà industriale che si estendeva su un’area di circa 94.000 mq la cui attività è durata fino al 1986, ben 79 anni accompagnati da una drammatica sequenza di malattie e patologie che per troppo tempo si è tentato di nascondere sotto la polvere bianca dell’amianto. «Un posto sicuro» è stato un film di denuncia, che non concede alibi né sconti.
Racconta la storia – che comprende tante altre storie e testimonianze anche attuali – di un padre (Giorgio Colangeli) e di un figlio (Marco D’Amore), vittime della malagiustizia e delle polveri di amianto che ne hanno segnato profondamente anima e corpo. Due urla di disperazione complementari, ma differenti, quello di un padre che vede vicina la propria fine e si preoccupa per il futuro di suo figlio, e quella di un figlio che si ritrova a dover lasciar andare il proprio padre senza avere almeno la certezza di potergli restituire quello che merita: giustizia.
Pochi sapranno che nel novembre 2014, in Cassazione, ogni risarcimento per le morti da amianto di ex-operai e abitanti di Casale Monferrato è stato negato, giudicando il reato come caduto in prescrizione. Quella di Francesco Ghiaccio è la più emozionante, crudele, ma riuscita dimostrazione che molte persone sono ancora in attesa di risposte da parte delle istituzioni. Esistono piani regionali di smaltimento dell’amianto e di rifiuti speciali, esistono proposte di legge, esiste il faticoso lavoro delle realtà locali. Ma purtroppo esiste ancora l’amianto e chi si ammala a causa del medesimo, i dati parlano chiaro. Speriamo che la sentenza di oggi in Toscana sia solo il primo passo verso una reale assunzione di responsabilità, affinché si possa restituire a queste persone la consapevolezza che la giustizia esiste, così come dovrebbe esistere ancora per loro la possibilità di un posto sicuro.