La doppia funzione delle gioiellerie del clan Contini
di Giancarlo Tommasone
Roba da non credere, e infatti molti sono caduti nella loro trappola. A prima vista sembravano dei manager, vestiti in maniera impeccabile, utilizzavano iPad e telefoni di ultima generazione per localizzare le vittime di turno, e consultavano Milano Finanza per essere aggiornati sulle quotazioni dell’oro. E’ così che il pentito Giovanni Fortunato descrive uno dei «telefonisti» delle squadre di truffatori, che raggiravano anziani e che in una sola giornata di «lavoro» erano capaci di portare via anche 200mila euro tra soldi e gioielli. Ma che fine faceva l’oro? Come si trasformava in denaro frusciante? Attraverso una rete di gioiellieri, che facevano tutti (o quasi) capo al clan Contini. Uno di questi è Vincenzo Toscano, indagato, anche se, va detto, nell’ordinanza il gip annota: «La predetta attività, specie in considerazione della ripetitività del fenomeno, appare configurare il reato di ricettazione contestato. Tale reato non può, tuttavia, allo stato essere ascritto a Vincenzo Toscano, in quanto manca qualsivoglia approfondimento in merito ai soggetti che operavano all’interno» del suo esercizio commerciale. Toscano viene però costantemente tirato in ballo da Fortunato, che a verbale fa mettere pure queste dichiarazioni.
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«Visto che lui (Giovanni Barbato) aveva già la conoscenza con Enzo Toscano, titolare di una gioielleria a Corso Garibaldi, e voleva mantenere il rapporto e far vedere che lavorava bene, abbiamo cominciato a portargli l’oro, svariati etti alla volta, ma non nella gioielleria, ma a casa della mamma della moglie di Barbato che è nella zona di Piazza Carlo III. Toscano veniva lì col figlio. Noi gli davamo I’oro e il denaro lo andavamo a prendere dopo, presso la gioielleria», dichiara Fortunato. Che poi aggiunge: «Preciso che rispetto alla quotazione giornaliera dell’oro vista su Milano Finanza, Toscano tratteneva una piccola quota; tale quota era destinata alle famiglie, anche se non so precisare a quale famiglia dell’Alleanza di Secondigliano».
Il pentito: i gioiellieri
ci pagavano con i soldi
del «sistema»
E poi il pentito fa una riflessione valutata interessante dagli inquirenti. «Preciso che ritengo che i soldi che ci davano erano “sporchi”, della camorra, e che così di fatto (noi) glieli riciclavamo, visto che gli davamo in cambio dell’oro che poi fondevano».
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più soldi con le truffe agli anziani che con il contrabbando
Le gioiellerie dove si andava a portare l’oro, dunque, avrebbero avuto la funzione multipla relativa non solo alla ricettazione, ma anche al riciclaggio di denaro. Una quota era sempre messa da parte per il clan Contini, che quindi guadagnava due volte sull’operato dei truffatori: vale a dire sull’oro portato in gioielleria per essere fuso e sulla tangente imposta a «telefonisti» e «operativi» che raggiravano anziani in numerose città d’Italia (soprattutto nel nord della Penisola). La cosca del Vasto Arenaccia incassava anche il pizzo dai pakistani (quelli che lavorano nella zona della Stazione centrale a Napoli), gli unici dai quali si potevano e dovevano acquistare le schede non intestate per imbastire le truffe. Stessa cosa dicasi per i rivenditori «autorizzati» di telefoni cellulari; i dispositivi erano cambiati molto spesso dai truffatori, che pagavano i fornitori ogni settimana. Anche questi ultimi erano riconducibili al clan Contini.