di Giancarlo Tommasone
Traffico di reperti archeologici operato dall’Isis, ruolo della criminalità organizzata nostrana e rischio di attentati all’interno di siti che si trovano sul territorio nazionale. Stylo24 ha raccolto, sui temi, le considerazioni di Domenico Quirico, reporter per il quotidiano La Stampa, caposervizio esteri, già corrispondente da Parigi e inviato di guerra. Quirico è considerato tra i massimi esperti di jihadismo e di avvenimenti relativi alla cosiddetta Primavera araba.

Nei giorni scorsi il direttore del Parco archeologico degli Scavi di Pompei, ha annunciato il potenziamento dei controlli per il sito vesuviano. Quanto considera elevato il rischio di azioni da parte di jihadisti presso luoghi d’arte e di storia del nostro Paese?
Non conosco nello specifico il livello di allerta, il polso della situazione è naturalmente tenuto dal Governo. Credo però che in questo momento storico il jihadismo abbia altre esigenze a cui far fronte, una su tutte la difesa dei territori in cui è nato e si è sviluppato.
Si è occupato di un’inchiesta giornalistica su un traffico di reperti archeologici che ha portato a Salerno. Ci sono stati risvolti sensibili dopo il suo reportage?
Gli inquirenti e l’apparato di difesa dello Stato considerano di primaria importanza evitare – come deve essere – che sul nostro territorio avvengano azioni terroristiche. Certo, una cosa è rappresentata dal progetto del jihadismo, un’altra da eventuali tentativi che potrebbero prendere di propria iniziativa, cani sciolti, che con l’Isis – reputo – nulla o quasi nulla hanno a che fare. Il «comparto archeologico» passa dunque, secondo me, in secondo piano. C’è un livello di attenzione inferiore. Dopo l’inchiesta sono stato ascoltato dai magistrati, ma non mi risulta che ci sia stato un seguito, non mi risulta, ad esempio, siano avvenuti recuperi dei reperti che erano stati messi in vendita. Parlo naturalmente di informazioni in mio possesso.
In quell’inchiesta faceva emergere come fondamentale il ruolo della ‘Ndrangheta nella gestione del traffico.
Stiamo parlando di una delle più potenti organizzazioni criminali esistenti. E’ normale che si registrino rapporti di collaborazione – quando si parla di traffici che avvengono in territorio italiano – tra esponenti dell’Isis e quelli della ‘Ndrangheta. Non dimentichiamo che lo scambio di «professionalità criminali» avviene parallelamente in termini di traffico di droga, spesso attraverso la triangolazione Colombia-Nord Africa-Mediterraneo. Tornando ai reperti archeologici, non è un caso che il principale terminal per l’arrivo dei «pezzi», sia quello di Gioia Tauro.
E la camorra che ruolo ha in questa sorta di «partnership»?
Nel corso degli anni è stata superata dalla ‘Ndrangheta. Anni fa il riferimento era proprio il porto di Napoli, adesso non è più così. Naturalmente le organizzazioni malavitose campane continuano ad avere comunque un ruolo e un peso – anche se ridimensionati – per quanto riguarda i traffici imbastiti con i referenti del jihadismo.
Perché in Italia non si sono ancora registrate azioni terroristiche di stampo islamico?
La narrazione comune è quella dei servizi di intelligence tra i più efficienti al mondo. Ma, secondo la mia opinione, credo che sia controproducente per l’Isis attirare l’attenzione in un posto dove si può lavorare in silenzio e con ottimi risultati dal punto di vista degli introiti economici. Un luogo sicuro per gli scambi – quelli imbastiti con le organizzazioni criminali – quale è rappresentato dal nostro Paese.
Certo, gli affari si fanno in silenzio. E’ la logica mafiosa.
Non incorriamo però nell’errore di considerare il jihadismo come una mafia, perché il fine ultimo è notevolmente diverso. Anche se è indubbio che si muova spesso secondo una logica criminale. Mi riferisco ad esempio all’economia «sahariana», in cui hanno un ruolo fondamentale traffici di armi, di sigarette, di auto rubate. A ciò aggiungiamo che ci troviamo a considerare zone in cui è nulla o quasi, la presenza dello Stato. E’ un parallelismo da prendere con le dovute proporzioni, ma è ciò che poi accade, ad esempio in certi quartieri di città italiane. Dove la presenza dello Stato è alquanto labile ed è forte, di contro, quella delle organizzazioni malavitose.

Il traffico di reperti archeologici dalle zone che sono o sono state sotto il controllo del Daesh, ha subìto un ridimensionamento?
Sì, è diminuito, ma si effettua ancora. Soprattutto tramite la direttrice libica. Sono cambiati anche gli acquirenti. Nel momento in cui gli americani si sono resi conto che dietro il traffico di reperti ci fosse l’Isis – e quindi, con l’acquisto, si andasse a foraggiare l’organizzazione – si sono tirati indietro. Al loro posto, adesso, ci sono clienti asiatici o russi.
Maggiore il numero di profughi in entrata, maggiore il rischio di attentati. E’ d’accordo su questo rapporto utilizzato – ultimamente e sempre più spesso – anche dal nostro Governo?
No. Questa è una equazione pericolosa e, per certi versi, è smentita dai fatti. L’Isis per mettere a segno le sue azioni stragiste nel vecchio continente, si serve di «soldati» che spesso sono nati e cresciuti in Europa. Di gente che, come hanno insegnato gli attentati di Parigi o di Bruxelles, ha cittadinanza francese o belga, conosce il territorio, vi è radicato.
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