Tutti in piazza appassionatamente per l’avvento del 2018. Un Capodanno popolare o meglio populista, aggettivo il secondo, che subito inquadra la direzione che hanno preso da un po’ di tempo non solo la politica cittadina, ma anche l’arte e lo spettacolo della «Nazione Partenopea». E allora perché non festeggiare all’insegna del Terronismo di ultima maniera, quello che scimmiotta la lezione anni ’70 di Musicanova, la stessa del brigantaggio applicato alla musica?

Va tutto bene, anzi andrebbe tutto bene. C’è soltanto un però: i costi. Perché il Capodanno della città dai mille colori (anche se la tinta è arancio tendente al rosso) e dell’antisalvinismo resistente che tanti danni addusse… sulle strade di Fuorigrotta, grava sulle casse comunali per 114mila euro (anzi a voler essere precisi 114.557). Tale la somma da liquidare alla Azzurra Spettacoli Srl con sede in Santa Maria Capua Vetere, come risulta dalla determina dirigenziale numero 04 del 28 dicembre 2017. Non è dato sapere di questa cifra, quanto vada all’agenzia e quanto invece spetti a ogni singolo artista o magari a una parte di essi. Ma non si era parlato di Capodanno gratis? Ah, ok. Con gratis si indica accessibile a tutti, senza specificare che a pagare sono comunque i napoletani.

Ma veniamo all’offerta artistica. Luigi de Magistris l’aveva presentata come strettamente made in Naples, ma a ben guardare appare più made in centro sociale. La direzione affidata a Massimo Jovine (99 Posse) ha visto sfilare sul palco, da soli e in massa, gli artisti del collettivo Terroni Uniti e quelli di Capitan Capitone e i Fratelli della Costa.

Catalizzatore di tale tipo di eventi sempre e solo il bassista dei 99 che tanto piace a Giggino. Portabandiera Jovine di una cultura che ancora si vuol far chiamare «altra» e la cui imposizione costante fa emergere in maniera sempre più evidente l’appoggio dato dal mondo underground dei centri sociali a de Magistris, in occasione delle ultime amministrative.
Qualcosa pur bisogna offrire a chi tanto si è profuso. E allora che c’è di meglio di affidare a loro la gestione degli spettacoli di massa e renderli depositari unici dell’identità meridionalista applicata al populismo?
Un’unica cosa, però. Non chiamiamo controcultura quella che altro non è che espressione del sistema dei «pulcinella e dei ravanelli» (rossi fuori, bianchi dentro). La rivoluzione, anche nell’arte, è un’altra cosa. Si rafforza grazie alla varietà, non certo all’omologazione.