Una specialista del settore ci spiega cosa sia questa disciplina che in pochi conoscono.
di Letizia Laezza.
Si chiama “teatroterapia” ed in pochi sono a conoscenza di che cosa si tratti precisamente; è la ragione per cui abbiamo ritenuto interessante parlarne direttamente con una specialista del settore, Claudia Di Pasquale. Nata in Sicilia si è trasferita all’età di vent’anni a Milano con il sogno del palcoscenico, incrociandone una applicazione pratica di estrema curiosità.
Allora Claudia, partiamo dal principio: raccontaci cosa è la Teatroterapia.
È una terapia che attraverso il teatro mira ad accompagnare le persone a raggiungere il benessere tramite la rappresentazione di sé. Riguardo questo obiettivo e attenendosi allo stesso appellativo di “terapia” è facile confondersi con la psicologia, ma ci tengo a precisare che io non sono una terapeuta, non ho le competenze di un dottore: il mio lavoro si espleta tramite una interpretazione dei propri stati d’animo, è in questo senso che include il teatro, la messa in scena, con ciò che ognuno di noi elabora magari anche a propria insaputa. Ovviamente quando si parla di un essere umano e della sua interiorità si entra nel delicato campo della psicologia, ma proprio per questo in molti miei progetti sono accompagnata da una dottoressa: collaboriamo su due piani diversi ma intimamente connessi, attraverso linguaggi che si appartengono: quelli della percezione e della comunicazione della propria interiorità.
Come sei arrivata a questo ambito così singolare?
È comunque un settore in crescita, che ha una sua storia, ed anche se non se ne sente molto parlare ha molte applicazioni pratiche, anche laddove non sono particolarmente tecniche: basti pensare ai Pon e ai progetti di teatro che vengono attuati nelle scuole, nelle carceri, negli ospizi, nei centri per tossicodipendenti. L’arte viene da sempre utilizzata come mezzo di riabilitazione, a seconda delle attitudini personali del soggetto, ma la teatroterapia è diversa: non riguarda solo chi sa o vuole recitare, riguarda ogni individuo che abbia esigenza di mettere a nudo ciò che porta dentro. Il contesto della rappresentazione ci libera da quell’ansia sociale del giudizio, dalla timidezza, dall’imbarazzo di parlare di sé, di raccontarsi, e lo fa tramite il gioco del mettersi in scena, magari anche dell’ironizzarsi: si guarda in faccia il personaggio come se fosse un estraneo ma contemporaneamente ci si trova faccia a faccia con aspetti reconditi di se stessi. È un atto di comprensione, ammissione e sincerità. Io mi sono formata in questa pratica tramite un percorso triennale di studi, presso una scuola di teatro napoletana, l’Anthea; ad ogni modo non è difficile prendere parte a questa sorta di iniziative in qualità di utenti, se ne trovano numerose in circolazione.
I tuoi progetti partono sempre da un accenno di mitologia; si tratta di una pura preferenza personale?
Non proprio, nel senso che per quanto apprezzi la materia non la utilizzo come incipit solo per un fattore “estetico”. Ritengo che la mitologia sia in sé fatta di simboli e tramite questa simbologia molto marcata rappresenti in maniera facile alcuni principi della psicologia. C’è una connessione celata fra mito, simbolo e psiche: come se in tempi remoti, quando ancora l’arte della terapia psicologica non era affinata, l’uomo cercasse di mettere in scena, di dare una forma, un volto e un senso ad alcuni tratti comuni che caratterizzavano allora come oggi la sua natura: così sono nati molti miti. Per questo mi piace pensare che la teatroterapia seppure sembri un’arte nuova in realtà è antica come l’uomo, rispecchia la sua esigenza di trovare un senso, spiegarsi e comunicare ciò che prova fin dal suo principio.
Ti va di raccontarci una tua esperienza particolarmente gratificante?
Questa è una gran bella domanda! le esperienze gratificanti sono state tante. Ne ricordo una con particolare affezione; ricordo di una ragazza incastrata in una relazione di totale dipendenza dall’altro, di alienazione da sé, che ha trovato finalmente il coraggio di uscire da un rapporto insano, il che è stato solo il primo passo verso una questione ben più importante: agire sulla propria vita. Infatti anche se nei miei lavori parto dal discorso amoroso, lo faccio solo perché si tratta di una esperienza comune a tutti ed enormemente trasformativa, ma il mio vero interesse è quello di portare le persone a comprendere che l’unico spazio d’azione che hanno è quello su sè stesse, non sull’altro componente della relazione o sul sentimento stesso. Io lavoro sull’empowerment: la consapevolezza e il controllo su di se, sulle proprie scelte, sulle proprie azioni, che hanno a che fare a 360° con la vita, ben oltre l’aspetto sentimentale.
Hai in cantiere qualche progetto nei prossimi tempi?
Certo, attualmente sto lavorando su una serie percorsi tutti collegati in maniera diversa alle differenti sfaccettature delle relazioni di coppia, che in un modo o nell’altro riguardano un po’ tutti noi alla stessa maniera, non c’è nessuno che si possa astenere dall’attraversare queste emozioni. Ho appena concluso un mini-corso gratuito sul “lasciare andare l’altro”, sul mio canale telegram privato. Stiamo poi per lanciare, io e Noemi Fiorentino, una psicologa con cui collaboro spesso, un webinair sul narcisismo che si terrà a fine mese. Anche qui partiamo proprio dalla mitologia: Narciso fu condannato a vivere fin quando non avrebbe conosciuto se stesso, fin quando non avrebbe visto la propria immagine, e per questo simbolicamente l’uomo/donna-Narciso ha paura dei legami, perché le relazioni sono come uno specchio, attraverso l’altro e il rapporto che vi si instaura si arriva a conoscere se stessi: si corre però il rischio che nella relazione avvenga la distruzione dell’io, che è comunque un cambiamento, una crescita. Per questo l’amore è anche generazione, un modo attraverso il quale conoscersi, distruggere e creare. In virtù di ciò il mio hashtag personale è proprio “#amore evolutivo”, nome che ho deciso di dare anche ad un workshop che terrò a Milano, spero ad ottobre, dove conto di guidare i partecipanti, proprio partendo dai miti, a comprendere quali personaggi e quindi quali personalità secondarie hanno messo in scena nella loro relazione o nella loro vita, in modo da poter comprendere al meglio se stessi per capire cosa sta accadendo nella loro vite. Questo credo sia lo scopo del percorso che ho intrapreso fra il teatro e la terapia, un percorso utile non solo a chi lo segue come fruitore, ma anche a me in prima persona che esco arricchita da ognuna di queste esperienze.