Intervista al professor Brunelli: «Oggi i focolai della radicalizzazione non sono più le moschee ma le carceri»
di Mariangela Capparella
Uno sventato attacco biologico in Germania, un accoltellatore seriale che ferisce sei persone a Parigi in stazione. Così è iniziato il 2023, che sembra in netta continuità con gli anni precedenti delle stragi al Bataclan o a Berlino, dell’attentato presso la sede del giornale Charlie Hebdo, della folle corsa del camion a Nizza, fino ad arrivare all’inspiegabile fenomeno delle Chiese cattoliche «auto-incendiatesi» nel 2020. Dietro a questi attacchi chiaramente vi è molto di più e per entrare in questi meccanismi complessi, affrontiamo l’argomento con il Professor Michele Brunelli, docente Master MARTE dell’Università di Bergamo: «Prevenzione della radicalizzazione, contrasto al terrorismo e sicurezza internazionale».
Professor Brunelli, qual è lo stato dell’arte in tema di radicalizzazione all’interno delle carceri italiane?
«Una premessa: purtroppo oggi i temi come il terrorismo, la radicalizzazione e deradicalizzazione sono argomenti che non sono più di “moda”, questo implica (non da parte delle forze dell’ordine che sono sempre in allerta, ma da parte della società civile) un abbassamento di attenzione. Negli anni, collaborando anche con le forze dell’ordine siamo riusciti, con la nostra Università ad avviare collaborazioni accademiche per mettere in atto politiche efficaci di deradicalizzazione, anche alla società civile».
«Attraverso queste collaborazioni abbiamo compreso che il terrorismo e la radicalizzazione non si combattono esclusivamente con la repressione: occorre fare prevenzione, come il progetto per il contrasto all’estremismo violento appena rifinanziato da Regione Lombardia per le scuole secondarie superiori. Oggi i focolai della radicalizzazione non sono più le moschee, con le quali collaboriamo da un decennio, ma le carceri. Chi ne esce estremista magari non si farà esplodere, però potrebbe fare da base logistica».
La radicalizzazione
Quali sono i meccanismi che portano un soggetto laico a radicalizzarsi?
«Fini egoistici o di auto protezione o anche utilitaristici. Una persona che entra in carcere per reati al patrimonio, può incontrare dei suoi connazionali che hanno, per esempio, formato un gruppo specifico sotto l’ala protettrice di un Imam, professandosi ferventi musulmani: ecco che scattano i privilegi. Avrà diritto a mangiare ḥalāl, per cui invece di mangiar cibo cucinato per 1000 persone, otterrà qualcosa di qualità superiore. Il venerdì è giorno sacro e quindi le attività nel carcere per lui finiranno il giovedì. Ancora, sarà al riparo da vessazioni da parte di altri carcerati. Chiaramente questi vantaggi hanno un prezzo, che andrà prima o poi pagato alla causa del jihadismo globale».
Nel suo libro ha prestato attenzione anche allo scambio di informazioni sui radicalizzati da parte dell’intelligence Europea. Alla luce della recente sentenza sul Bataclan, si poteva fare di più? E negli ultimi anni si sono fatti dei progressi?
«Con il Bataclan si è preso a posteriori coscienza sul problema esistente. E’ senza dubbio un buon punto di partenza, ma facendo leva sempre sulle buone pratiche, trattando l’argomento come qualcosa di endemico che va seguito costantemente e non solo in emergenza come si è fatto negli ultimi anni. Ovviamente con la situazione Ucraina si sta sottovalutando molto questo problema ma, in alcuni posti del mondo, dove Al Qaida è ancora in forte attività, molti gruppi si stanno riorganizzando unendosi ed agendo con punti ed interessi comuni in altri Paesi, come in Sahel: dal Burkina Faso al Mali, al Niger, alla Repubblica Centrafricana, dove la presenza russa “stranamente” è molto forte, perché è andata soppiantando la ritirata, non molto strategica della Francia».
Le ingerenze nel parlamento europeo
Alla luce del suo lavoro di indagine considera preoccupanti le notizie che provengono dal parlamento europeo, sulle ingerenze di Qatar e Marocco?
«Sicuramente e non per il terrorismo, quanto per il basso senso etico di rappresentanti delle Istituzioni, per la mancanza di un senso di orgoglio nazionale e sovranazionale. Ad un certo punto dinanzi ai soldi, vediamo abdicare a tutti i princìpi etico – morali fino ad affermare che in determinati paesi c’è pieno rispetto dei diritti umani. Gravissime certamente sono le ingerenze di un paese come il Qatar che si è speso molto in finanziamenti opachi verso organizzazioni non troppo benefiche. Anche l’Arabia Saudita, se ricordiamo, qualche anno fa, lo stesso giorno che ha mandato a morte 40 rappresentanti Sciiti tra cui Nimr al-Nimra (leader religioso), alle Nazioni Unite nominava il direttore dell’unità dei diritti umani…»
Le nuove insidie
Capitolo foreign fighters: i «Returnees», come lei li definisce nel suo volume («Prevenzione e contrasto al terrorismo di matrice confessionale e alla radicalizzazione», Rubbettino), sono già tutti tornati in Europa oppure nei flussi migratori in atto da Turchia, Libia o Marocco si possono nascondere nuove insidie?
«No, non sono tutti tornati. Molti sono morti in guerra, altri sono detenuti nei campi di prigionia nel nord della Siria. Molti di questi sono formalmente cittadini europei, di cui l’Europa non sa cosa farsene. C’è chi, come la Gran Bretagna, toglie loro la cittadinanza, qualora l’abbiano doppia. L’Italia tempo fa ha riportato in Patria una donna con il suo bambino, ma è come spesso avviene un caso isolato».
«In quei campi sono presenti uomini che non si deradicalizzano, ma molte donne ancora più estremisti e soprattutto tanti bambini, a rischio di essere fortemente plagiati dall’idea islamista. Sono i “cuccioli del Califfato”, che nel momento in cui noi parliamo stanno imparando l’alfabeto arabo usando figure di armi per riconoscere i fonemi: la K come Kalašnikov, e via dicendo. Ci sono arrivati filmati su come questi bambini di 11 anni al massimo, vengono addestrati in una cava, dove il loro obiettivo è cercare un prigioniero che devono poi uccidere. Cosa ne sarà di loro?»
Il conflitto in Ucraina
Ultima domanda sugli scenari attuali: se le guerre nei Balcani furono un veicolo di armi ed ordigni a disposizione anche di gruppi criminali e terroristici in Europa, lo schema rischia di ripetersi col conflitto in Ucraina?
«Direi di no perché in Ucraina siamo in presenza di un conflitto tradizionale tra due eserciti Nazionali, di come non eravamo più abituati a vederne. E’ vero che anche la guerra in dell’ex Yugoslavia è iniziata con eserciti strutturati, poi però si sono innestati sul territorio una serie di corpi paramilitari che hanno compiuto stragi e genocidi, nascondendo poi le armi da riutilizzare in caso di emergenza. I Balcani hanno provocato uno Tsunami geopolitico per due motivi: per la grande disponibilità di armi – e al Bataclan a sparare furono armi dell’ex Yugoslavia – e per la “conversione” dell’islam balcanico, che per secoli era stato di matrice Sufi e quindi molto dialogante, divenuto salafita e wahabita dopo la venuta di mujaheddin e predicatori. Non penso quindi che in Ucraina si svilupperà lo stesso processo».