di Giancarlo Tommasone
A marzo dello scorso anno, Simona Zecchi, freelance romana che attualmente collabora con la redazione italiana di Euronews, ha pubblicato «La criminalità servente nel caso Moro» (La nave di Teseo Editore). Il volume analizza il ruolo di un comparto della ’Ndrangheta calabrese, che si sarebbe messo praticamente al servizio di altre strutture di potere che decisero il destino del leader della Dc.
«La criminalità servente nel caso Moro»,
il libro di Simona Zecchi
uscito a marzo del 2018

Zecchi è intervenuta sulla questione sollevata da una intervista del quotidiano «Il Mattino» all’ex giudice Carlo Alemi. Il magistrato che indagò sul caso Cirillo, interpellato su un verbale del 2016, in cui Raffaele Cutolo afferma che avrebbe potuto salvare l’onorevole Moro, ma che gli fu impedito, parla di lettere di ringraziamento fatte pervenire al padrino della Nco da alcuni politici democristiani, dopo la liberazione dell’assessore regionale.

Zecchi, Alemi non fa i nomi. Lei, invece, ne rendiconta nel suo libro: a chi appartengono quelle lettere?
«Le lettere a cui fa riferimento Alemi, sono quelle dell’onorevole Nicola Lettieri, che al tempo del rapimento Moro è coordinatore del Comitato di crisi del Viminale (uno dei 3 Gabinetti istituiti da Cossiga); e di Attilio Ruffini (tra gli incarichi, quello di ministro della Difesa durante il Governo Cossiga I). Entrambi esponenti della corrente dorotea. Lettieri, in particolare, è il politico che negò alla signora Moro (Eleonora Chiavarelli) la circostanza relativa all’esistenza di una Via Gradoli, a Roma».
Lei evidenzia anche rapporti esistenti tra alcuni ambienti di ’Ndrangheta e centri di poteri del Governo, nella gestione del caso Moro. E in ciò entrerebbe in gioco anche Cutolo, ben prima del 2016.
«Cutolo afferma più volte, nel corso degli anni, che avrebbe voluto intervenire per salvare Moro, ma che gli sarebbe stato impedito. Per quanto riguarda i rapporti con la ’Ndrangheta c’è un passaggio molto interessante, che ha che fare con una deposizione di Pasquale D’Amico (santista della Nco, ndr). E’ sua la prima dettagliata dichiarazione e risale addirittura a più di 20 anni fa».
Di cosa si tratta?
«E’ una dichiarazione che D’Amico rende nel 1988, al pm Domenico Sica. “Nel 1978 – afferma l’ex componente della Nco – verso marzo o aprile, ero latitante, a casa mia a Secondigliano […]. Avevo anche rapporti con l’avvocato Francesco Gangemi. Costui, in compagnia dell’avvocato De Stefano (cugino di Paolo De Stefano) e di Piero Gangemi (cugino del Gangemi, imprenditore edile a Reggio Calabria) e di un’altra persona di cui non ricordo le generalità, venne a chiedermi di voler incontrare Raffaele Cutolo. Rammento che i quattro viaggiavano su di una 316 o 318 Bmw targata RC […]. Il Gangemi – da solo, dopo avermi preso in disparte – mi aveva spiegato il motivo per cui voleva un appuntamento. Mi disse: Pasquale, guarda, se cerchiamo di liberare Moro ci sono molti soldi e molte ‘aggiustazioni’ [sic] su processi e mandati di cattura in conto per noi».
Lei parla però anche di un’altra fazione di ’Ndrangheta, che invece avrebbe agito contro la liberazione di Moro. La definisce «struttura riservata». A che frangia si riferisce?
«A quella che partecipa al rapimento di Via Fani e segue la vicenda fino alla morte di Moro. Quella che fa capo ai Nirta. A questo punto però, bisogna fare un doveroso distinguo: nel 1978 non c’erano ancora i locali come li conosciamo oggi. Le cosche si dividevano in maggiori e minori. I Nirta (e non i Nirta-Strangio che sono componenti della minore) erano parte di questa struttura riservata che si muoveva affinché Moro non si salvasse».
E per quel che riguarda la cosiddetta santabarbara delle armi della ’Ndrangheta che sarebbero state fornite, anche tramite la camorra, sia a gruppi eversivi rossi che di destra?
«Cutolo nel 2015 (ma comincia a parlare della cosa già nel 1989) fa riferimento a delle armi della ’Ndrangheta delle quali si approvvigionavano le Br. A questo proposito c’è da sottolineare che la Procura di Roma ha al vaglio alcune armi rinvenute in una santabarbara di ’Ndrangheta che potrebbero essere state usate per Via Fani. Ma sull’arsenale ‘calabrese’ potevano contare anche i terroristi neri legati ad ambienti della Magliana; prova ne è il fatto, che nel corso del processo Pecorelli (siamo nel 1998), Cutolo stesso parla della richiesta di una pistola rivoltagli da Nicolino Selis: arma che sarebbe servita a quelli della Magliana per consumare l’omicidio del direttore di Op. E Cutolo consiglia a Selis di riferirsi a Paolo De Stefano. Ma i rapporti, nello specifico, tra camorra e ’Ndrangheta risalgono addirittura alla fondazione della Nuova camorra organizzata».
Lei dice della Nco: è una costola della ’Ndrangheta. Perché?
«Il Caso Moro è un caso complesso fatto di tante verità. Quelle che riguardano i ruoli della criminalità organizzata, in particolare la ’Ndrangheta nel caso, ma di fatto tutte le componenti criminali sono state a servizio di operazioni ben precise (la ’Ndrangheta in quegli anni abile nei sequestri) sono diverse. Una delle più importanti è il legame saldo che c’era fra Nco e ’Ndrangheta, la prima costola della seconda. Pasquale Barra, ad esempio, quando racconta ai magistrati della nascita della Nuova camorra organizzata, afferma: “Un giorno ci sedemmo intorno a un tavolo e discutemmo con loro la possibilità di organizzare la Nuova camorra, da soli io e Cutolo non avremmo potuto organizzare niente… I capi della ’Ndrangheta ci fecero giurare in questa grande riunione fino all’ultimo stillo di sangue di essere fedeli all’organizzazione (riferimento maxi-sentenza Nco giugno 87 n. 3492). Anche il collega Giorgio Mottola nel suo libro ‘Camorra Nostra’ ricostruisce bene diversi aspetti del sodalizio».
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