La conversazione intercettata tra due affiliati al clan Fabbrocino che discutono di leadership
Il «titolo» di boss non sempre si eredita per semplice e automatica successione dinastica, non sempre passa da padre in figlio. Uno se lo deve guadagnare anche sul campo, per meritarsi il rispetto degli affiliati. Più sono di spessore, maggiore sarà la critica nei confronti di chi dovrà guidare il clan. Ad esempio, un reggente dei Fabbrocino non vede di buon occhio che la cosca passi un giorno sotto la gestione del figlio del padrino Mario (alias ’o gravunaro, scomparso nell’aprile del 2019). La circostanza emerge da una conversazione intercettata, che avviene tra due affiliati di rango dell’organizzazione criminale di San Giuseppe Vesuviano. Siamo nel periodo in cui Mario Fabbrocino è in carcere (già da un paio d’anni), e la cosca vive una fase di estremo sbandamento. I sodali continuano ad avere grande rispetto per il capoclan, perché lo ritengono un uomo con un trascorso camorristico storico e di peso. Ma tale rispetto non si può automaticamente accordare anche al rampollo del boss. «Noi lo rispettiamo per tutte quelle cose che ha fatto. Lui (Mario Fabbrocino) è un uomo storico nei paesi nostri. Noi lo rispettiamo fino a terra (fino a inchinarci a terra, ndr) per l’uomo che è, per quello che ha fatto qua. Ma noi abbiamo delle direttive ben precise», afferma l’allora reggente del clan.
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Relativamente alla circostanza della leadership, gli inquirenti – in una informativa di polizia giudiziaria – argomentano come i contenuti della conversazione «mettano in luce che il riconoscimento di “rispetto” è circoscritto per gli “eventi camorristici passati” solamente al capoclan Mario Fabbrocino e che non è estensibile per successione, al figlio di quest’ultimo, il quale non è ritenuto “all’altezza”, e non ha i “titoli”, perché privo di curriculum criminale, per esercitare in seno al consolidato sodalizio camorristico, una eventuale politica di cambiamento organizzativo».