Gli anni di vita della Nuova camorra organizzata sono anni di violenza e orrore per Napoli e la provincia. Vendette, agguati mortali, regolamenti di conti: il clan attua una feroce strategia militare per staccarsi dai confini della provincia nolana e avanzare su Napoli. Cutolo ha propri capozona a Ponticelli, Cercola, San Giovanni a Teduccio. Il suo vice è Vincenzo Casillo, soprannominato ’o nirone: il capo in carica della Nco durante la detenzione di Cutolo, un personaggio chiave nella mediazione tra camorra e Br per la liberazione di Cirillo, sospettato di essere coinvolto anche nella morte del banchiere Calvi, trovato senza vita sotto il ponte dei Frati Neri a Londra (le indagini non sono andate avanti perché nell’83 Casillo viene assassinato in un agguato).

Luogotenente del boss di Ottaviano è anche Corrado Iacolare; tra i portavoce e consigliori del boss la sorella, Rosetta Cutolo, la donna dagli ‘occhi di ghiaccio’ (per il colore dei suoi occhi), di professione ricamatrice ma per gli inquirenti sarebbe stata lei a tessere le trame della Nco durante la reclusione del fratello (arrestata nel febbraio del ’93 dopo dieci anni di latitanza, Rosetta Cutolo è stata scarcerata nel ’99 dopo aver scontato la condanna).

La Nco si espande e si attira le inimicizie di altri capi della camorra di Napoli e dell’hinterland. I primi feroci delitti risalgono alla fine degli anni Settanta e nel 1981, dopo lunghe e meticolose indagini che impegnano quasi tutti gli uomini della squadra mobile, viene scoperta la cosiddetta ‘banda della morte’. In tutto sei killer al soldo del boss di Ottaviano, accusati di aver decimato il gruppo La Rocca che gestiva un piccolo giro di estorsioni a Barra. Dalla periferia orientale al cuore della città: gli uomini di Cutolo si scontrano anche con gli storici Giuliano di Forcella quando pretendono una tangente da mezzo miliardo di lire sulle sigarette di contrabbando vendute al centro storico e ai Quartieri Spagnoli.

Ma non è solo sulle strade che si combatte la lotta per il predominio camorristico. La sera del 23 novembre del 1980, la sera del terribile terremoto che la Campania mai dimenticherà, è una sera di sangue e morte nel carcere di Poggioreale. Per gli inquirenti, dietro quelle morti ci sarebbe la regia del boss di Ottaviano. I carabinieri impiegheranno un anno per arrivare ad una svolta investigativa: sedici persone vengono messe sotto inchiesta per le accuse di triplice omicidio, otto tentati omicidi e detenzione di armi. Lo sterminio dei detenuti avviene tra il 23 e il 25 novembre dell’80 e dalle carte giudiziarie si capisce la dinamica. Quando la terra trema, si scatena il panico tra le mura del carcere di Poggioreale. I mille e più detenuti – Poggioreale è al tempo tra i penitenziari più affollati d’Europa – abbandonano le celle e vengono portati tutti nei cortili. Lì trascorrono la notte. Per regolare dei conti è la situazione ideale. I fedelissimi di Cutolo raggiungono il loro capo per proteggerlo o per ricevere ordini: delle due l’una, o forse entrambe. Un gruppo si stacca dalla folla e recupera dei coltelli.

La prima vittima è nell’infermeria del carcere: Antonio Palmieri, detto Tonino ’o muscio, è detenuto per una condanna di concorso in omicidio: muore con 70 coltellate e un proiettile perché – secondo la ricostruzione investigativa – si sarebbe opposto al controllo, da parte degli uomini di Cutolo, di alcune attività illecite nella zona di Fuorigrotta. Il secondo obiettivo è nel ‘padiglione Genova’: Giuseppe Clemente viene ucciso perché – stando alle indagini – avrebbe rapinato un commerciante di Porta Capuana già sotto la ‘protezione’ della banda di Cutolo. Infine il ‘padiglione Firenze’, dove i killer avvicinano Michele Casillo e lo puniscono con la morte per un presunto sgarro fatto ad uno degli uomini della Nco. Armati di coltelli, motivati dalla voglia di dimostrare d’essere capaci di qualsiasi cosa all’interno del carcere, i ‘boia del carcere’ sferrano coltellate a destra e a manca: rimarranno feriti otto detenuti. E la sera del 25 novembre 1980, terminata la notte di sangue e vendette, la banda si riunisce intorno al suo capo e tutti cenano insieme in una cella.

Da allora ci sarà una lunga lista di detenuti morti in carcere, in circostanze poco chiare oppure in dinamiche che non lasciano dubbi al fatto che si sia trattato di omicidio. Eclatante l’uccisione di Francis Turatello, conosciuto col soprannome di faccia d’angelo. Luogotenente di Renato Vallanzasca e re delle bische milanesi con frequentazioni altolocate, viene assassinato nel pomeriggio del 17 agosto 1981 nel carcere ‘Badu’ e carros’ di Nuoro: sei coltellate al torace, al collo e alle braccia gli sono fatali. Un coltello e punteruoli le armi usate da quattro detenuti, subito identificati. Tra questi Pasquale Barra, soprannominato ’o nimale e il boia delle carceri, fedelissimo e spietato killer al soldo di Cutolo (si racconta che abbia strappato il fegato di Turatello e lo abbia preso a morsi). Barra si pentirà agli inizi del 1983 diventando uno dei primi collaboratori di giustizia della camorra campana.

Il caso Cirillo e le voci mai smentite sulla trattativa conclusa con lo Stato valgono ad accrescere il potere di Cutolo, benché il boss sia confinato all’Asinara in regime di massima sorveglianza. I capi delle organizzazioni di Napoli e delle provincia non ci stanno. E’ anche e soprattutto una questione di soldi, di affari e di interessi nei settori del contrabbando e dei traffici di droga, delle estorsioni e dei grandi appalti. Il terremoto, del resto, per la camorra è stata una ‘manna dal cielo’: i miliardi per la ricostruzione, la ripresa dei cantieri, la nascita di un nuovo ciclo politico-economico. Ne ha approfittato, come quando il giorno in cui fu rapito Aldo Moro approfittò della partenza in massa del distaccamento della guardia di finanza per far sbarcare a Napoli quattrocento casse di sigarette. Il malaffare comincia a far gola a tanti e si creano le prime rivalità e le spartizioni delle zone per contrastare lo strapotere della Nuova camorra organizzata.

Carmine Alfieri, il padrino di Piazzolla di Nola che alla fine degli anni Novanta diventerà un eccellente pentito di camorra, si impone nella sconfinata provincia napoletana. I clan della città e della periferia nord si uniscono in una federazione che si chiamerà Fratellanza napoletana, presto ribattezzata Nuova Famiglia. E’ Luigi Giuliano, boss di Forcella, che stanco dell’arroganza della Nco e delle pressanti richieste di tangenti su ogni cassa di sigarette che sbarcava clandestinamente a Napoli, organizza nell’80 la prima riunione con Luigi Vollaro, ras di Portici, e le famiglie della camorra cittadina. La guerra contro la Nco è feroce, per certi versi più silenziosa delle stragi compiute in Italia dai terroristi che vogliono sovvertire l’ordine pubblico e ricattare lo Stato. E’ una guerra che si consuma giorno dopo giorno, lasciando una scia di sangue di oltre mille morti ammazzati. Uno stillicidio annuale: 140 morti nel 1980, 295 nel 1981, 359 nel 1982, 266 nell’83. Giorni di fuoco che si ripetono, vendette ad orologeria.

Il 16 aprile 1982 si compie una strage che finisce nelle pagine più nere della storia della guerra di camorra: in sole quattro ore un commando della Nco stermina un’intera famiglia, i Di Matteo, perché avrebbero iniziato ad avere legami col gruppo della Nuova Famiglia. Nel cuore della notte i killer uccidono, con mitraglietta e 38 special, Mattia Di Matteo e due suoi guardaspalle e ne bruciano i corpi. All’alba irrompono nella casa dei Di Matteo a Sant’Antimo e uccidono la madre, la sorella e la moglie di Mattia Di Matteo. Viene risparmiato soltanto un bambino di tre anni, che i poliziotti troveranno in lacrime accanto al cadavere della mamma. L’antico codice della malavita che impediva di uccidere, oltre ai bambini, anche le donne inizia ad essere violato. In passato c’avevano provato anche con la famiglia di Cutolo: il 30 maggio 1981 una Ritmo parcheggiata davanti alla villa del boss viene fatta saltare in aria. L’esplosione disintegra l’auto e rompe i vetri di tutte le finestre della villa, un caseggiato a forma di elle che dà sulle campagne di Ottaviano dove vivono la madre, la sorella, un fratello, un cugino e numerosi nipoti di Cutolo.

La guerra tra la Nuova camorra organizzata e la Nuova Famiglia, come al solito, ha echi anche nelle carceri e persino in tribunale dove gli appartenenti ai due gruppi si incrociavano per le udienze. Il 22 febbraio 1982 ci scappa il morto. C’è una sparatoria in una delle celle di sicurezza del tribunale, zone di transito per i detenuti che terminano l’udienza e attendono di essere riportati in carcere. Quel giorno nella cella sono in ventuno, tra loro anche Raffaele Cutolo. Il boss di Ottaviano esce scortato da due carabinieri: è il suo turno per il viaggio di ritorno al carcere. Un attimo dopo scoppia una lite tra Michele Montagna, luogotenente del professore, e tre detenuti, Antonio Giaccio, Gennaro Licciardi e Gennaro Limatola.

Il primo è uomo di Michele Zaza, il re del contrabbando di San Giovanni a Teduccio. Il secondo, detto ’a scigna, è il boss della Masseria Cardone e fondatore della cosiddetta ‘Alleanza di Secondigliano’ legata alla Nuova Famiglia, come Limatola. La lite si consuma in due minuti e termina con la morte di Giaccio e il ferimento di Licciardi e Limatola. Montagna li ferisce prima con un coltello, poi con una pistola. Quando i militari irrompono nella cella il massacro è già compiuto e, sotto interrogatorio, Montagna risponderà “Le armi? Le ho avute in sogno dal Padreterno”.