Se le formiche si mettono d’accordo possono spostare un elefante (anonimo del Burkina Faso)
Mancano poche ore all’inizio della stagione calcistica e al debutto dei nostri amatissimi azzurri colori in quel di Firenze. Firenze che nell’aprile del 2018 fu giammai fatale, come molti maliziosi millantatori vollero ventilare nelle nostre teste, ma solo e soltanto il luogo in cui ci accorgemmo che ci avevano rubato il portafoglio con il triangolino tricolore meritatamente guadagnato. Sarebbe bello ripartire da Firenze con la consapevolezza di ciò che siamo e siamo stati per capire dove potremmo andare. E’ la storia che dovrebbe insegnarci la via da seguire. Eppure ne siamo dimentichi. Costantemente dimentichi. Abbiamo rimosso la sfilza infinita di ottavi posti o gli anni delle salvezze disperatamente raggiunte, abbiamo rimosso il ricordo dei nostri genitori che si commuovevano a raccontarci del meraviglioso Napoli di Vinicio che arrivò secondo mettendo paura alla Juventus di Zoff e compagnia brutta.

Abbiamo rimosso di essere stati in novantamila il 23 aprile 1978 per un Napoli-Vicenza in cui noi sesti in classifica affrontavamo la rivelazione del campionato (il Lanerossi Vicenza di Paolo Rossi, novello fuoriclasse del calcio italiano). Abbiamo dimenticato di aver esultato, raggianti, quel pomeriggio al sesto minuto del primo tempo per una mirabolante staffilata da fuori area del nostro capitano Claudio Vinazzani, inconsapevoli che di lì a poco, i veneti ci avrebbero subissato con quattro reti. Eppure il bambino che era accomodato insieme al padre sugli spalti «strabordanti» di sudore e passione del settore Distinti e che oggi scrive ormai cinquantenne, ricorda gli incoraggiamenti, i cori con i nomi dei calciatori urlati senza sosta, ricorda gli applausi al bomber Beppe Savoldi dopo il rigore sbagliato nel secondo tempo, quel rigore che avrebbe restituito al Napoli la possibilità di riequilibrare il risultato (immaginate oggi le reazioni ed i commenti social dopo un errore simile di Lorenzo).

Quel bambino ricorda anche, e come potrebbe dimenticare, gli undici eroi vestiti di azzurro che quel giorno dovevano far realizzare i suoi sogni: Mattolini, Stanzione, Ferrario, La Palma, Mocellin, Pin, Restelli, Vinazzani, Juliano, Capone, Savoldi. E quel bambino che si esaltava per un tunnel sbagliato di Capone, per un imperioso stacco di testa di Savoldi che faceva terminare la palla a fil di palo, per un tuffo del povero Mattolini che solo per un maledetto ciuffo di erba non riusciva a deviare il tiro ahinoi vincente di quel fortunatissimo vicentino, ecco, quel bambino oggi non riesce proprio a lamentarsi non dico di Lorenzo Insigne, ma neanche di Mario Rui.

E quel bambino crede che non se ne lamenterebbe nessuno degli altri 89.999 che quel giorno riempivano lo stadio. E quel bambino diventato adulto si chiede dove diavolo siano finiti tutti i suoi amici di quel giorno.
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Davvero non ci sono più perché il Napoli non vince mai? Ma il Napoli, fatta eccezione dei sette anni in cui Lui è stato con noi, non ha mai vinto nulla. Anzi…mai è stato così forte come in questi anni targati Aurelio de Laurentiis. Ah ecco…il presidente. ll presidente pappone che addà ccaccià ’e soooord!!!! Il presidente capace a Napoli di mutare l’atavico proverbio «piove governo ladro», in un più corretto «piove Adl pappone».

A tutti coloro che, magari anche con plausibili argomentazioni lo contestano, la storia viene in soccorso ripescando nella memoria un cielo azzurro su cui in una domenica pomeriggio si andò a stagliare, volteggiando sullo stadio, un aereo con annesso striscione che recitava un perentorio «Ferlaino Vattene». Fosse andato via quel giorno Corrado Ferlaino, forse non avremmo avuto neanche quei sette anni di Lui… chissà. Anche quel giorno il bambino di cui sopra c’era. E applaudì vigoroso e speranzoso al passaggio dell’aereo. Beh… sbagliavo. Ma il punto non è questo.
Il punto non è avere ragione o avere torto, il punto non è essere pro o contro il presidente. Il punto è capire tutti insieme, noi, sterminato e appassionato popolo azzurro, dove diavolo siano finite le novantamila anime che in quel caldo pomeriggio di aprile incoraggiavano incessanti una squadra di centro-classifica senza ambizioni di sorta che potessero essere una.

Il punto è avere coscienza tutti insieme che non esiste niente di più eticamente orribile del pensare che vincere è l’unica cosa che conta (scrivo e sottolineo il termine pensare, perché dirlo è abominio di natura juventina).
Il punto è capire che noi non siamo
l’elefante, noi siamo le formiche
Noi siamo l’uomo del Burkina Faso che urla a squarciagola che sì, è assolutamente possibile, anzi probabile che tutti insieme azzurramente e retoricamente uniti, possiamo spostare l’elefante. Noi tifosi del Napoli dobbiamo smetterla di pensare a cosa il Napoli deve fare per noi, e dobbiamo tornare a pensare a quello che noi possiamo fare per il Napoli. Perché solo e soltanto così possiamo spostare l’elefante. Perché, come diceva un meraviglioso Eduardo De Crescenzo: «Ma io ce credo… ancora ce credo…. l’ammore a nuie ce pò salvà».
Azzurramente, Peppe Miale