Per il decesso avvenuto in carcere del detenuto romano erano accusati i suoi compagni di cella, tra cui due campani.
Fabio De Luca non è morto in seguito a un pestaggio subito dai suoi compagni di cella (la 110, da cui il nome dell’operazione) nel carcere di Isernia. Si conclude così il processo per la morte del detenuto romano della quale erano accusati l’agnonese Elia Tatangelo e il napoletano Francesco Formigli (entrambi ancora oggi detenuti ma per altri reati). Aniello Sequino, anche lui campano, era già stato assolto a Isernia con il rito abbreviato. La vicenda inizia la notte del 4 novembre 2014, quando De Luca viene trovato in fin di vita all’interno del penitenziario molisano, per poi essere trasferito d’urgenza presso l’ospedale di Campobasso, dove il 45enne spirerà una settimana dopo.
Per quella morte, dopo una iniziale ricostruzione che va verso la caduta accidentale dal letto, vengono accusati, a seguito dei risultati dell’autopsia, appunto, Tatangelo, Formigli (che al momento dell’arresto si trovava ai domiciliari in una casa di cura a Napoli) e Sequino, che, secondo la Procura, avrebbero aggredito la vittima con un oggetto a superficie liscia, forse uno sgabello, avvolto da un panno, ferendolo mortalmente alla testa. De Luca, arrestato per rapina ed era in carcere dopo aver aggredito la madre, era considerato un detenuto molto litigioso e, secondo la tesi dei pm, l’agguato sarebbe stato premeditato per vendicarsi.
Ma la difesa ha sempre sostenuto la tesi per cui quella caduta dal letto, avvenuta dopo un malore, sarebbe stata la reale causa del ferimento alla testa che ha portato la morte. Tesi avvalorata da una serie di perizie, tanto che oggi, durante l’ultima udienza del processo, anche il sostituto procuratore di Isernia, Alessandro Ianniti, ha chiesto l’assoluzione degli imputati, perché il fatto non sussiste. La famiglia della vittima si era costituita parte civile nei processi.