di Giancarlo Tommasone
Spostamenti sicuri, sempre decisi, autorizzati e monitorati dai fiancheggiatori, appartamenti occupati per periodi brevi (una quindicina di giorni al massimo quando ci si trova nella zona di influenza del clan) per rendere vano ogni tipo di tentativo effettuato dalle forze dell’ordine di potersi portare sulle tracce del fuggitivo. Perché a volte basta niente a far saltare tutto, basta il più insignificante degli errori, il più banale degli indizi a mettere fine alla latitanza.
Il lungo e complesso lavoro per continuare
ad assicurare la libertà a un latitante
La clandestinità è qualcosa che va curata nei minimi particolari, un dettaglio fuori posto pregiudica la riuscita del progetto. Il trasferimento da un covo all’altro è organizzato in un arco di tempo relativamente lungo. L’ultima fase va finalizzata in pochi minuti, ma dietro c’è un lavoro logistico che può durare diversi giorni. La «nuova» zona che già si conosce a menadito, va osservata con attenzione, si prepara il terreno, si studia il percorso, si organizzano staffette e «servizio d’ordine». Si sceglie l’orario con cura, si considerano perfino le condizioni meteorologiche. Si ascoltano le voci ad ogni livello e solo quando si è sicuri che tutto sia a favore, si dà avvio all’azione.
Le operazioni di pianificazione e di «bonifica»
delle aree prima del trasferimento del ricercato
Il latitante, naturalmente è l’ultimo «pezzo» ad essere spostato, è la metafora del gioco degli scacchi: il «re» ha immenso potere, ma movimenti goffi e lenti, e per questo motivo la sua vita e la riuscita della partita dipendono solo ed esclusivamente dalla sua protezione. Il re non può mettere sotto scacco l’omologo avversario, perché verrebbe esso stesso a trovarsi sotto scacco. Per tenere in piedi una «macchina» del genere, pedoni, cavalli, alfieri, torri e regina (il più fidato degli uomini, il capo della guarnigione di difesa) destinano alla sicurezza del boss una quota.
Per Marco Di Lauro, 38 anni, la latitanza è costata 10mila euro al mese, racconta una fonte delle forze dell’ordine a Stylo24; in 14 anni fanno circa un milione e 700mila euro. Soldi «ben spesi» se si considera il prolungato periodo di clandestinità, soldi dispensati da un «tesoriere» con ampio potere decisionale, per il quale la prima voce era relativa alla vita di F4 (il quarto dei dieci figli maschi di Paolo Di Lauro).
Gli inquirenti sono al lavoro per risalire ai componenti della rete di protezione, studiano le «carte» rinvenute nel covo di Via Emilio Scaglione a Chiaiano, a caccia di nomi, sono concentrati a decriptare «pizzini», mettono a posto i tasselli per inquadrare l’attuale reggente del clan Di Lauro, quello che è stato deputato a guidare la cosca durante il periodo di interregno che si è aperto sabato scorso con la cattura del superlatitante. Il 38enne (difeso dall’avvocato Gennaro Pecoraro), detenuto nel carcere di Secondigliano in regime di alta sorveglianza, nelle prossime ore potrebbe essere raggiunto da un decreto di 41bis, che lo porterà in un penitenziario di massima sicurezza, confinato al carcere duro (lo stesso tipo di detenzione a cui sono sottoposti il fratello Cosimo e il padre Paolo, alias Ciruzzo ’o milionario).
In mattinata, nel frattempo, è atteso dal primo dei due interrogatori ai quali verrà sottoposto. Comparirà davanti al gip Pietro Carola per la contestazione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’inchiesta è relativa a una operazione che ad aprile del 2015 portò all’arresto di trenta persone. La seconda misura cautelare, della quale risponderà domani mattina davanti al giudice Marco Carbone, fu invece emessa nel 2011, sempre per traffico di sostanze stupefacenti.
Marco Di Lauro deve scontare una pena di 11 anni e 2 mesi per associazione di stampo mafioso, condanna passata in giudicato. Ha rimediato l’ergastolo in primo e secondo grado, per l’omicidio di Attilio Romanò (vittima innocente della camorra, ucciso il 24 gennaio del 2005 per uno scambio di persona), ma nel 2015, la condanna è stata annullata in Cassazione con rinvio degli atti, e il processo pende attualmente in Corte d’Appello.