Professore universitario di fama, consulente di ministeri, amico di massoni, esponenti dei servizi e uomini politici ma soprattutto leader delle Brigate Rosse. Giovanni Senzani è una figura chiave degli anni di piombo, un uomo-cerniera capace di muoversi a suo agio in ambienti diversi, in apparenza antitetici tra loro, eppure incredibilmente vicini. L’uomo simbolo di quelle contraddizioni che hanno contribuito ad allargare la base di consenso del terrorismo che ha insanguinato l’Italia degli anni ’70-80. Una figura sfuggente, al centro di relazioni pericolose come solo un agente segreto sembrerebbe in grado di fare. Attraverso documenti e testimonianze inedite il libro «Il professore dei misteri. E con lo stato e con le BR: Giovanni Senzani e la storia segreta del doppio livello» (ed. Ponte alle Grazie, pag. 451) ricostruisce per la prima volta a tutto tondo la sua figura ambigua di uomo legato a strutture dello Stato ma al tempo stesso di leader della lotta armata almeno dal 1977. Stylo24 ha avuto modo di parlare con l’autore, il giornalista e scrittore Marcello Altamura.
Chi è Giovanni Senzani e qual è stato il suo ruolo negli anni di piombo?
«Si parla di una figura sulla quale non era mai stata fatta luce, pur essendo centrale per alcune vicende di quegli anni. E questo soprattutto perché non sono stati trovati dei riscontri dal punto di vista giudiziario. Basti pensare che nella sentenza del ‘Moro ter’, l’unico dei tre processi sul caso in cui Senzani è stato imputato, i pentiti, in particolare Patrizio Peci, lo hanno datato come elemento organico delle Brigate rosse solo dal 1978. In realtà, però, la sua figura è fondamentale. Con Senzani parliamo di un capo brigatista anomalo, distante dal contesto sottoproletario e operaista. Parliamo, infatti, di un professore universitario, che ha lavorato giovanissimo in Enti statali. E’ un intellettuale raffinato, un sociologo, un criminologo che va in antitesi con quei combattenti da strada cui si sono sempre rifatte le Br. E’ la cinghia di trasmissione tra quello che Leonardo Sciascia chiama il ‘bracciantato brigatista’ e il livello decisionale delle Brigate rosse, quello che ho definito come il livello superiore. Nel quale non si trovano solo brigatisti o persone che hanno a che fare con gli ambienti dell’ultrasinistra. Ambiente del quale conosciamo un identikit abbastanza attendibile in cui ci sono identità che fanno capo a realtà molto diverse rispetto a quello che sono le Brigate rosse. E sono un centro decisionale che ha contribuito, in particolare nel caso Moro, a imprimere una direzione che ha poi portato a quella tragica conclusione».

Parlando proprio di questo argomento, qual è stato il ruolo di Senzani nella vicenda che ha portato al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro?
«E’ necessario premettere come io nel libro abbia cercato di ribaltare un po’ la metodologia classica di queste inchieste. Non sono partito dalla mia idea di verità, dalla mia convinzione, per rimontare i pezzi del puzzle. Anzi, ho provato a sistemare le tessere in sequenza logica, unendo le testimonianze con i documenti, sia editi che inediti, e ce ne sono tantissimi, per poi far risultare una figura che sarà il lettore a giudicare. Senza proclamare alcuna verità. E’ partendo da ciò che viene ricostruito in maniera abbastanza dettagliata e capillare come Senzani, molto probabilmente, abbia avuto un ruolo decisivo nella gestione politica del sequestro nella città di Firenze, dove risiedeva. Vengono posti all’attenzione del lettore, tra gli altri, elementi come i filmati scomparsi di Moro prigioniero, storia intrecciata molto con la figura di Senzani».
E il suo ruolo nella vicenda Cirillo?
«Questa è una storia torbida che ha a che fare con i rapporti di Senzani con la malavita e in particolare con la Nco di Cutolo. Senzani fin dalla fine degli anni ’60, quindi dal termine dei suoi studi professionali sul mondo delle carceri e all’inizio del suo percorso politico, definisce i piccoli criminali, appartenenti alla criminalità comune, come dei sottoproletari disagiati, puntando a reclutare nell’organizzazione rivoluzionaria queste figure. Teorizza, quindi, una alleanza organica tra Brigate rosse e malavita comune. Questo lo porta a essere nel caso Cirillo un interlocutore privilegiato nella trattativa. E, partendo da ciò, nel libro ricostruisco i legami tra il caso Cirillo e quello Moro. La gestione politica del primo ha un legame molto stretto con quella del secondo. E questo legame è uno dei motivi per cui a distanza di tanti anni ancora non sappiamo tutto, soprattutto su come si sono sviluppati i contatti a tre tra lo Stato, e intendo anche e soprattutto i Servizi segreti, soprattutto il cosiddetto Anello, Cutolo e le Brigate rosse. Connessione che in tanti anni non è ancora stata scandagliata appieno».

Quali erano i suoi rapporti con figure dello Stato e con quelle della malavita?
«Parliamo di una figura di cerniera, che si è mossa da sempre nei più svariati ambienti. Agli inizi degli anni ’90, quando è attiva la commissione stragi, Senzani viene accusato da un ex contactor della Cia, di essere un agente doppio. E’ un argomento che ancora oggi fa una certa impressione, se non una certa paura. La seconda commissione Moro, che ha chiuso i suoi lavori nel 2017, nel momento in cui cercava di approfondire la figura di Senzani, si vide recapitare una lettera del suo avvocato, nella quale c’era scritto come fosse inutile indagare su di lui, che nel caso Moro non c’entrava nulla. Parole che, invece di spingere ad andare avanti, fermarono il lavoro della commissione. E questo fa capire come ancora oggi, a 40 anni di distanza, parliamo di un argomento molto indigesto».