di Giancarlo Tommasone
Non c’è più posto nel suo cuore per la famiglia che lo abbandona in carcere, scrive di odiarla, che i suoi parenti sono animali. Si riferisce al padre, alla madre, al fratello. L’autore di quelle lettere intercettate dalla Procura è Vincenzo Troia, considerato dagli inquirenti ai vertici del sodalizio criminale scompaginato dall’operazione eseguita lo scorso martedì. E’ fitta la corrispondenza tra il boss di San Giorgio a Cremano e Vincenzo Cefariello, all’epoca dei fatti, a capo degli Abate, i Cavallari. Le lettere contenute nell’ordinanza emessa dal gip Giuliana Pollio a metà dello scorso novembre, sono del 2010 e stanno a testimoniare tutto il rancore che prova Vincenzo Troia.

«Che te lo dico a fare, sempre senza soldi, io sono quello che deve pagare per tutti… a me la galera non mi fa nulla, ma le cattive azioni mi hanno fatto molto male, non c’è un attimo nella mia vita che io non pensi alla mia famiglia e in me li chiamo gli animali», scrive Troia che poi denuncia lo stato di abbandono in cui si trova: «A Pasqua nemmeno il colloquio mi hanno fatto, non me ne vado in isolamento perché sono onesto, ma è brutto, sto senza soldi da 20 giorni, qua ci sono tantissime persone che buttano il culo a destra e sinistra e non sono nemmeno degne del mio saluto, eppure si sono messe a disposizione, cosa che io non voglio. Zio (si rivolge così a Cefariello, anche lui detenuto), mia mamma (Immacolata Iattarelli) a me mi odia, io non chiedo nulla, ma solo ciò che mi spetta… 400 o 500 euro al mese». Poi chiede al suo «amico di penna» di scrivere per lui all’avvocato.

«Digli di essere chiaro e di non aprire solo la mano trattandomi come una bestia – poi la minaccia – L’ho giurato con le lacrime agli occhi, lo devo distruggere, devo cacciare tutti i suoi parenti da San Giorgio, fosse l’ultima cosa che faccio». Il rapporto di Vincenzo Troia col padre Ciro (alias Gelsomino) sembra irrimediabilmente incrinato. «Spero solo che esce mio padre, anche se ora debbo dirti che a me non serve nemmeno lui, li ho odiati e ne ho fatto una ragione di vita». Sintomatico del rancore che sta provando è il fatto che alla fine della missiva, Troia saluti Cefariello con la frase «Ti Amo Papà», sostituendo il genitore con la persona a cui scrive.