Lo spettacolo di Enzo Decaro andato in scena al Teatro Parioli di Roma
di Serena Trivelloni
Un viaggio incredibile quello proposto da Enzo Decaro con il suo «Avaro immaginario» andato in scena al Teatro Parioli di Roma dal 15 al 19 novembre. E un cast d’eccezione, che vede tra i protagonisti Nunzia Schiano e i sei attori della Compagnia di Luigi De Filippo: Luigi Bignone, Carlo Di Maio, Massimo Pagano, Giorgio Pinto, Fabiana Russo e Ingrid Sansone. I costumi di Ilaria Carannante richiamano i colori dell’epoca, immersi nello splendore delle luci di Luigi Della Monica.
Tra le musiche dell’indimenticabile Nino Rota, alcune villanelle e gli antichi richiami della tradizione popolare napoletana, il regista e attore partenopeo conduce per mano gli spettatori nel meraviglioso pellegrinaggio dell’arte e della vita, appassionandoli alle vicissitudini della compagnia di Oreste Bruno, nipote del famoso Giordano.
Tra Molière e la commedia dei De Filippo
Suggestive le commistioni e i riferimenti, quanto brillanti e intelligenti le chiavi di lettura. E poi il devoto omaggio a Molière con la sua intramontabile «Comédie humaine» in cui il «Malato Immaginario» e «L’Avaro» fanno da cavalli di battaglia. Molière, troppo spesso dimenticato dai giovani ma ricordato dagli artisti, l’esponente più audace della commedia moderna. Osservatore acuto della società del suo tempo, portò sul palcoscenico con spirito critico e irriverente la psicologia e i costumi dei suoi contemporanei. Un commediografo e drammaturgo amato dai fratelli De Filippo, e in particolar modo da Luigi, che nel 2011 mise in scena proprio il riadattamento de «L’Avaro partenopeo».
Quello del Capocomico Oreste Bruno/Enzo Decaro che con il suo carretto ci «trasporta» fino a Parigi, è un teatro dotto che veste panni popolari, gli stessi tipici della Francia e del Regno di Napoli di quel periodo. Sono più le influenze francesi sulla cultura napoletana o più le note partenopee che colorano quelle transalpine? Una connessione culturale vivace, in cui Pulcinella diventa Scaramouche, e «la faim» diventa «’a famm». La stessa provata dai protagonisti della compagnia del carretto, tanto cara ai De Filippo quanto a Molière. Tutto ruota intorno al teatro, alla sua dimensione salvifica e al suo significato più autentico. Il teatro dà e il teatro toglie, proprio come il tempo secondo il filosofo Giordano Bruno, la cui eredità di pensiero aleggia significativamente sui personaggi della commedia.
Il teatro è verità
Il teatro è vita, e per dirla in termini pirandelliani assoluta verità. L’intento non solo di Molière e dei De Filippo, ma anche di Enzo Decaro, è quello di spogliare i propri personaggi da ogni sorta di maschera. «In scena bisogna avere pochissimo trucco» come direbbe Molière, così come una volta finito lo spettacolo, rimane semplicemente quello che si è. Ma chi si è veramente? Cosa si sogna? È la domanda che la maga-strega Amadora (Ingrid Sansone) rivolgerà proprio al nostro protagonista, Oreste Bruno. Realtà e finzione, sonno e veglia, vita e morte, sono i grandi dilemmi dei filosofi come Giordano Bruno e dell’umanità dove: «nisciuno nasce, nisciuno more, se cagna sulo vestito».
L’omaggio a Massimo Troisi
In una società come quella seicentesca dominata dalla superstizione, dall’ignoranza e dalla corruzione, l’aspetto più prezioso da custodire è quello della «non maschera». Il duro riferimento e le aspre critiche sembrano muoversi però anche nella direzione della società attuale, dove le cose sembrano sfuggire dalle mani e l’unica verità rimane quella dello specchio.
Interessante notare come gli attori della compagnia siano di spalle mentre mettono in scena nelle piazze le rappresentazioni di Molière per il pubblico, e si rivolgano a noi solo nei dialoghi e momenti di vita reale. Emozionante anche il riferimento all’amico di sempre, Massimo Troisi, per cui «la commedia non è di chi la scrive, ma di chi gli serve.» Massimo, la più grande «non maschera» del teatro moderno, colui che ha avuto il coraggio di superare le convenzioni e le superstizioni del tempo rimanendo fedele a sé stesso. Una delle più importanti rappresentazioni d’umanità e verità che la nostra epoca ricordi.
Verità è anche ritorno alle origini
E verità sembra significare proprio questo: ritorno alle origini, alle emozioni, a quello che si è stati. Il personaggio dell’immensa Nunzia Schiano, ne è la più vivida rappresentazione. È lei che tra la Reggia di Versailles con Molière e la casa con pane e pomodoro sceglie senza nessun dubbio la seconda: «C’aggia fa’ co stu Molière?». Qui viene fuori la Napoli degli affetti, delle tradizioni, dell’orgoglio delle proprie origini linguistiche. Quella sensazione, come diceva Eduardo, di «addormentarsi sentendo il suono degli ziti spezzati da mia madre». Verità però è anche quella delle emozioni. Riso, nostalgia, pianto accompagnano le vicende e i drammi dei protagonisti, come l’epilogo della commedia, in cui Oreste Bruno si commuove e sua sorella Filomena se ne stupisce: «Sì, sto chiagnenn’, e comm’è bell’ chiagnere!» è la frase pronunciata dal protagonista e che rimanda a un’altra splendida citazione di Eduardo De Filippo in Filumena Marturano.
Una commedia che racconta la tragedia
In conclusione potremmo dire che «L’Avaro immaginario» è una commedia che racconta una tragedia; un teatro che parla di teatro, di vita. Qui c’è la bravura di artisti come Nunzia Schiano, la compagnia teatrale Luigi De Filippo e ovviamente Enzo Decaro i quali riescono perfettamente a rendere quel senso di precarietà tipica delle compagnie di giro seicentesche. Insieme affrontano mille difficoltà, ma rimangono uniti nel loro vagabondare, sempre in lotta per mettere il piatto a tavola, ma guidati dall’amore devoto e assoluto per il teatro. In scena, con un unico atto, vengono raccontati sogni, speranze, nostalgie e lettere mai corrisposte attraverso sentimenti incredibilmente reali.
E se alle sfide e ai dogmi del tempo e della storia tre rivoluzionari come Giordano Bruno, Jean-Baptiste Poquelin in arte Molière e Luigi De Filippo rispondono con la parola «umanità», per Enzo l’unica soluzione con cui è possibile nutrire corpo e anima è proprio questa: il teatro e la magia delle sue umane e infinite rappresentazioni.