Il monologo ha diviso gli spettatori, c’è chi non lo ha apprezzato e chi lo ha fatto suo. Ma ha raggiunto l’obiettivo: dare voce a chi non ne ha
di Serena Trivelloni
E quella raccontata ieri sera dall’attrice Chiara Francini in una «lettera ad un bambino mai nato» sul palco di Sanremo è una verità spassionata, diretta, ironica, amara. Il monologo in realtà è tratto dal suo spettacolo teatrale «Una Ragazza come io», parole che ascoltate da una qualsiasi donna che quel figlio non lo possiede, arrivano dritte alla pancia passando per lo stomaco.
Un monologo così efficace e intenso che forse sarebbe stato più intelligente metterlo in prima serata, perché quello portato sul palco di Sanremo è uno specchio esatto della nostra società, della vita, di noi stesse. E’ quella voce interiore che spesso spinge anche le donne più forti, intelligenti e realizzate a sentirsi sbagliate o non abbastanza per i propri figli, per i propri compagni, per la famiglia, per se stesse. Sbagliate perché in fondo pensiamo di non essere brave mamme, o cuoche, o compagne, o magre, o belle, sempre. Sbagliate perché non conformi. Sbagliate perché diverse da chi ci vorrebbe tutte uguali.
Il monologo di Chiara Francini non è affatto lontano dalla cruda realtà di chi a 35 anni sente chiedersi: «Come mai non hai ancora figli?» o «come mai hai scelto di separarti da quella storia con cui ti stavi costruendo un futuro?». Il tempo scorre e scandisce bene i suoi secondi, in una società in cui devi essere sempre performante, in cui devi arrivare e fare carriera ma nel frattempo avere i figli perché «l’Italia è un Paese sempre più vecchio». Un’ Italia che ti spinge a essere prima mamma e poi donna.
Nessuno ti spiega però come si fa, o come ci si arriva. Nessuno si sofferma sul «piccolo dettaglio» che per fare un figlio ci vuole un rapporto solido alle spalle, intenso, vero. Ci vuole l’Amore – oltre che le possibilità – senza nessuna forma di compromesso.
La voglia di festeggiare
E allora, come spiegato anche da Chiara, arriva per tutte il fatidico momento in cui: «Quando qualcuna ti dice che è incinta e tu non lo sei mai stata c’è come qualcosa che ti esplode dentro. Un buco che ti si apre, in mezzo agli organi vitali, una specie di paura, stordimento, e, mentre accade tutto questo, tu devi festeggiare, perché la gente incinta è violenta e vuole solo essere festeggiata. E non c’è spazio per il tuo dolore, per la tua solitudine. Tu devi festeggiare. Come l’albero di Natale che tengo acceso tutto l’anno in salotto, un albero di Natale assolutamente insensato che continua ad accendere le sue lucine, anche a luglio, fuori tempo massimo. Una festa continua senza nessuna natività. E io ho festeggiato».
Un buco si apre. Per le riflessioni e le contraddizioni interne, per le insicurezze con cui ti accompagna questa società che inverte i ruoli e che nel 2023 ancora ti punta indirettamente il dito contro. Nessuna donna dovrebbe pensare di essere una «donna di merda» per ciò che sente, pensa, indossa, sceglie. Nessuna donna dovrebbe sentirsi sbagliata, o arrivare a pensare di non essere stata abbastanza per qualcosa o per qualcuno. Perché è questo il meccanismo che scatta, talvolta anche in donne estremamente intelligenti, ammirate e realizzate: «Non ha scelto me, non sono stata abbastanza». O «non ho avuto un figlio, allora non sarei stata una brava madre, o non sono una persona completa».
Una società dovrebbe insegnare la cultura e il valore dell’identità personale, del rapporto con l’altro, l’importanza del realizzarsi prima come donne, e poi eventualmente come madri. Mi viene da dire che spesso ci troviamo davanti a tante madri o padri infelici incastrati in rapporti insoddisfacenti perché non hanno conosciuto il valore della propria identità. Perché non si sono scelti, perché è mancato quel famoso atto di coraggio che porta una persona a non accontentarsi, fare un salto nel buio e provare ad avere un rapporto tra identità pari, complesso ma sincero.
L’importante è l’involucro
Ma per questa società, che non ti insegna a saper amare e condividere con il prossimo, non è tanto importante quello che c’è dentro «la scatola» ma l’involucro, tutti vittime di un sistema che va avanti ormai da molti anni. Un sistema che spesso spinge ad apparire, fingere di essere felici all’esterno trascurando il proprio interno. Un sistema che porta le relazioni ad essere aperte e fragili, in cui tendenzialmente non si è mai solamente in due, ma in tre, quattro… dipende dai casi.
Un sistema che non spinge al perseguimento dell’amore inteso come nutrimento e scambio profondo di rapporto con l’altro, perché «ad un certo punto» è più importante essere sereni e «sistemati» piuttosto che rimanere soli.
E allora quello che mi viene da dire a Chiara e a tutte le donne che guardandola ieri sera hanno sentito una piccola stretta allo stomaco è questo: non siete sbagliate. Forse a volte ci si sentirà un po’ più sole perché si è scelto di non accontentarsi, di non scendere a compromessi, di vivere le emozioni con intensità e verità. E forse a volte ci si troverà di fronte a occhi che non capiranno fino in fondo quello che siamo, perché non sono in grado di riceverlo o comprenderlo. Ma sarete fedeli a voi stesse, alla vostra identità, alle vostre realizzazioni. Avrete sempre più chiaro quello che volete e come lo volete, e sarà sempre più difficile starvi accanto, ma quando questo accadrà, sarà per gli altri un privilegio assoluto.
Le domande sospese
«Perché è così che funzionano le cose della vita: non sono mai come te le eri aspettate. Da dove mi viene tutto questo? Quanto mi è costato diventare come sono? Quanto costerà a te? E in mezzo a tutto questo bisogno di arrivare, in mezzo a tutta questa rabbia, a questo amore, io, ora, non so dove metterti. O, forse, sei proprio tu che non vuoi venire da me, perché credi che io mi sia dimenticata di te, che io mi sia dimenticata della vita. Perché avevo troppo da fare. Ma io volevo solo essere brava, io volevo solo essere preparata, io volevo che tu fossi fiero di me. Anche se ancora non ci sei. Forse, perché ci sei sempre stato».
Bravissima Chiara. Soprattutto per aver portato su quel palco, che alla fine rappresenta la vita, una donna che accetta di rimanere fedele a se stessa e di non spegnere il cervello.