Cade l’ultimo muro nell’era della gestione De Laurentiis, supporter come cheerleader ospitati in Tribuna d’Onore
Ancora il diavolo, sempre il diavolo, che si sa, ci mette la coda e soprattutto le corna. Ma nonostante l’eliminazione del Napoli in Champions, ad alzare un nuovo trofeo è il presidente Aurelio De Laurentiis, che vince su tutta la linea la battaglia innescata con gli ultras azzurri. In meno di una settimana si è passati dallo scandire lo slogan «De Laurentiis figlio di…» a cercare di coprirlo, quando a lanciarlo non era stato un nutrito gruppo dello zoccolo duro dei supporter napoletani, esasperati dalle restrizioni imposte sugli spalti da società, Prefettura e Questura, ma dai tifosi milanisti, assiepati nello spicchio del Maradona a loro riservato.
I CORI DALLA B PER COPRIRE GLI INSULTI A DE LAURENTIIS
LA FOTO DEL PATRON CON I CAPI ULTRAS
È accaduto al termine del match di martedì scorso: i rossoneri insultano il patron e dalla Curva B (Sic!) ci si attiva per difenderlo provando ad attutire – tra l’altro con pessimi risultati – il canto offensivo. Una situazione surreale, considerando il precedenti di nemmeno una settimana prima, una situazione che rappresenta la prova regina del successo di ADL. Del resto, la sua cura prima per «ammansire», poi per «ammaestrare» il tifo organizzato aveva cominciato a dare effetti positivi (dipende dai punti di vista) nelle ore precedenti la partita casalinga contro il Verona, con il «seppellimento dell’ascia di guerra» immortalato da una foto che ha fatto rapidamente il giro dei social. De Laurentiis al centro e i capi ultras intorno, tutti uniti come una grande famiglia – questo il messaggio da veicolare – per il bene comune del Napoli.
AL MARADONA TIFO ANESTETIZZATO
Certo, la Maglia viene prima di tutto, questo non si discute, perché passano i giocatori, le società, e perfino i tifosi, ma la Maglia è per sempre. «E poi, il titolo da queste parti non lo alziamo da 33 anni», questo il mantra che giustifica e assolve atteggiamenti di fantozziana memoria, del capo sui sottoposti. La verità è che il tifo dell’ex San Paolo non è più quello che appena 5 anni fa, giusto per citare un episodio, si trasferiva di colpo nel destro vincente di Diawara nella storica rimonta contro il Chievo. Non è più quello del sostegno fino al 90° e oltre. Altro che bolgia, dopo lo 0-1 di martedì in Champions, il Maradona, tranne impalpabili cori per provare a zittire i supporter rossoneri, è rimasto in silenzio, con qualche sussulto solo in occasione del rigore fallito da Kvara e del gol dell’inutile pareggio di Osimhen. Troppo facile così.
I FEDAYN OSPITATI IN TRIBUNA D’ONORE
Evidentemente l’ultima dose di «anestetico» utilizzata da ADL è stata eccessivamente pesante ed ha avuto molte controindicazioni. Una su tutte ha interessato i Fed – si veda pure alla voce Fedayn, se poco si sa di ultras -, tra i più longevi gruppi organizzati d’Italia, ospitati in Tribuna d’Onore, quasi fossero ordinate cheerleader che agiscono sotto l’occhio vigile del padrone, o i più classici degli «occasionali». Scena difficile da mandare giù per chi continua a vivere seguendo la filosofia old school di palpiti e gradinate, anche perché una cosa del genere ce la si aspetta magari da tutti, ma non da chi da sempre predica «coerenza e mentalità».

LE RAGIONI DI UNA SCELTA CHE NON CONVINCE
Ma come si è giunti a tutto questo? È chiaro che la «colpa» (se così la si vuole chiamare) sta da entrambe le parti: dal lato di chi lavora per uno stadio-teatro e da quello di chi adesso paga soprattutto uno scotto pesantissimo in termini di libertà di espressione. Conosciamo da anni la linea di ADL, al di là di tutto gli si deve dare atto che è stato sempre chiaro rispetto alle sue intenzioni. Come conosciamo la linea dei gruppi organizzati del tifo, che per troppo tempo hanno issato una barriera difficilmente perforabile, crogiolandosi in una dimensione settaria. Che ha impedito – anche con comportamenti a volte estremisti, eccessivi e da stigmatizzare – che si diffondesse lo spirito sano del sostegno alla squadra, e si infondesse completamente non solo nelle curve ma nel resto dello stadio. E che non ha permesso di creare i presupposti perché quel tifo da 12esimo uomo in campo fosse trasferito alle nuove generazioni.
LA VIOLENZA VA SEMPRE CONDANNATA
CONTESTARE ADL DIVENTATO «REATO» DI LESA MAESTÀ
Sia chiaro, la violenza va sempre condannata, e i cani sciolti – che per una ragione o un’altra – provocano scontri all’interno o all’esterno dello stadio, in casa o in trasferta, vanno allontanati e puniti a norma di legge. Ma altro è la critica nei confronti della società, in fin dei conti chi paga il biglietto (e quelli del Maradona sono assai salati) ha il diritto anche di esprimere dissenso, accade in teatro e può accadere allo stadio, anche se deve restare sempre nei limiti della contestazione che non diventi aggressione di alcun tipo. A onor del vero, va pure sottolineato, però, che in questi anni, contestare ADL è diventato un «reato» di lesa maestà.
GLI ULTRAS NON PERDANO DIGNITÀ E IDENTITÀ
Gli ultras azzurri, che rappresentano il nucleo del tifo, che da sempre sostengono la Maglia, a Napoli, nel resto d’Italia e d’Europa, bene hanno fatto ad aprirsi e a cercare la via della distensione e della pace. Ma se vogliono che sia una pace duratura, se vogliono essere davvero liberi di potersi esprimere e di tornare a trasformare il Maradona in una bolgia che atterrisce la squadra avversaria in campo e che ha una parte attiva nel match; a spingere il Napoli per 90 minuti e oltre; ad essere visti come la guida e il timone del tifo; se vogliono continuare a coinvolgere, non perdano dignità e identità. E nell’ambito della firma di qualsivoglia «accordo», rispettino i doveri ma facciano valere anche i propri diritti.
VINCERE NON È L’UNICA COSA CHE CONTA
Perché, nonostante da troppi anni si attenda il sospirato titolo di Campioni d’Italia, vincere non deve essere l’unica cosa che conta, non deve portare ad impari compromessi. Vincere come presupposto o condizione per poter essere vicini alla squadra, lo si lasci a chi va al Maradona solo perché il Napoli è a un passo dal traguardo, o considera uno status symbol dover assistere almeno a una partita; lo si lasci a chi lucra sulla passione, ai tifosi social, o a chi, peggio, soffia sul fuoco per visibilità; lo si lasci a quel 70% di persone che di punto in bianco sono salite sul carro, perché – vista la leadership consolidata degli azzurri – hanno capito che potrebbe essere quello dei vincitori. Lo lascino a chi della filosofia che conta soltanto vincere ha fatto il proprio credo. La nostra fede ha altri valori, è venuto il momento di dimostrarlo al di là del risultato.