L’esperto: «Le risorse umane richieste dagli imprenditori devono possedere competenze precise, dettagliate, analitiche»
Il dinamismo sociale va’ di pari passo con la mutevolezza delle figure professionali ricercate dai recruiter. Sono lontani i tempi in cui si rispondeva agli annunci di lavoro sui quotidiani locali. Internet ha stravolto completamente il concetto di offerta/richiesta di lavoro, modalità di selezione dei candidati e aspettative delle aziende. A metà strada si sono affermati da tempo i “cacciatori di talenti”, cosiddetti Head Hunter, che riescono a far combaciare perfettamente la domanda con l’offerta di lavoro. Come un abito confezionato su misura, l’Head Hunter propone il professionista adatto alle esigenze dell’azienda che necessita di assumere, ed oggi, grazie alla mobilità internazionale, alimentata e supportata dalle nuove tecnologie, il job placement non ha più confini.
Ma rimangono criticità, specialmente nel nostro bel paese. La crescita professionale non sempre viene contemplata all’atto dell’assunzione. Ecco che, sempre più manager contemplano, come possibile trampolino di lancio per la loro carriera, il trasferimento. Spesso, oltre i confini nazionali. Per capire meglio il trend attuale, abbiamo chiesto il parere di un esperto, Armando Aliperti, Head Hunter, titolare della Business Mangement, esperto di risorse umane con esperienza ventennale.
L’esigenza di una nuova figura professionale
Perché hai scelto di dedicarti alle risorse umane?
A – La spinta iniziale è venuta grazie a un’inclinazione naturale in primis, poi è subentrata la forte motivazione di offrire un servizio di qualità sia all’imprenditore sia ai candidati in cerca di lavoro. Mi piaceva connettere le persone e vederle felici dopo che questa connessione era andata a buon fine. Quello che mi colpiva, vent’anni fa, soprattutto nel Sud Italia, era notare che gli imprenditori ritenevano strano investire su una società che potesse, dall’esterno, proporre una risorsa di lavoro che l’imprenditore non riusciva a individuare autonomamente. Era impensabile per gli imprenditori interfacciarsi con una società, come la mia, per trovare i propri dipendenti.
Poi, gradualmente, la tua figura professionale si è inserita di fatto nelle aziende che delegavano te.
A – Esattamente. Anche all’epoca, quando le aziende non avevano una direzione del personale da cui ricevere supporto per le ricerche, si rivolgevano a me in qualità di Head Hunter. Oggi, invece, anche grandi aziende con una strutturata direzione del personale, continuano a rivolgersi ad agenzie come la mia, a me in particolare, per avere un ottimo servizio, certi di raggiungere quei manager che, senza il mio supporto, non riuscirebbero a contattare. La business management è diventata un canale diretto per i manager, infatti, pur non pubblicando annunci in particolare, business management ha un database pieno di profili di professionisti certi di venire collocati in aziende di qualità.
Come sono cambiate le esigenze di chi offre lavoro e di chi lo cerca in questi ultimi venti anni?
A – Prima le skills richieste erano generiche e si chiedevano competenze ad ampio raggio. Adesso, invece, si sta creando una verticalizzazione, nel senso che le risorse umane richieste dagli imprenditori devono possedere competenze precise, dettagliate, analitiche, si richiede un livello di competenza elevato a seconda della mansione da ricoprire.
Lavoro e web
Ritieni che i social aiutino nella ricerca di una risorsa?
A – I social sono stati fondamentali e continueranno a rivestire una notevole importanza nella ricerca di lavoro. Io li utilizzo molto, soprattutto per avere un’idea, a grandi linee, della persona a cui farò un colloquio, chi è, cosa fa nella vita, come si pone verso gli altri. Ovviamente è un’idea superficiale, ma è comunque utile. Il social che utilizzo di più è LinkedIn. Anche noi abbiamo creato una nostra piattaforma, Fireproof, un social che raccoglie la nostra attività. I manager si affidano a noi direttamente.
Il web ha abbattuto i confini geografici. Perché si cerca lavoro fuori dall’Italia?
A – L’Italia è ancorata a determinati aspetti dell’imprenditorialità: l’Imprenditore, la grande azienda a conduzione familiare ha un capo che gestisce un gruppo di risorse. Invece, il manager italiano, la risorsa umana qualificata che ha voglia di esprimersi e di dare il meglio di sé, non trova, in Italia, la stessa corrispondenza, viene visto sempre come un dipendente che fa delle cose, le fa bene, ma non viene considerato come un manager. Il concetto del manager come professionista a metà strada tra il dipendente e l’imprenditore di sé stesso è un concetto che all’estero hanno interiorizzato. E lì gli viene permesso di crescere.
Le ambizioni dei manager
All’estero una persona ha più spazio quindi?
A – In Italia c’è poco spazio per i dipendenti manager per crescere, vi sono grossi limiti. I manager italiani, sempre più spesso, sono alla ricerca di qualcosa di nuovo che comprende la crescita professionale, la gratificazione, un’investitura di responsabilità di progetti più ambiziosi.
I manager quindi sono sempre più orientati verso il trasferimento estero?
A – Sì. L’Europa sta accogliendo manager italiani con un occhio di riguardo rispetto ai manager locali. I manager italiani hanno dovuto sviluppare contemporaneamente più competenze, per conquistare il loro posto nell’habitat lavorativo. All’estero fanno molto di più. Gli italiani sono multitasking, sono più pronti, frizzanti, si sanno destreggiare in situazioni difficili e complesse. Negli ultimi anni, la complessità è stata alla base dello sviluppo delle aziende. I manager italiani sono stati capaci di portare sviluppo all’estero dove le aziende erano piuttosto ferme.
I consigli dell’esperto
In conclusione, potendo dare un consiglio a un ventenne che si approccia al mondo del lavoro, un trentenne nel mezzo della sua carriera, e un cinquantenne che vuole cambiare e rimettersi in gioco, cosa diresti a queste persone che si trovano in diversi momenti del loro percorso professionale?
A – Al ventenne consiglierei di cominciare ad orientarsi verso studi in cui si sente portato, di rendere la sua passione il suo lavoro potenziale. Dovrebbe figurarsi il lavoro che potrebbe meglio rappresentarlo in futuro, non pensare solo alla gratificazione economica perché poi questa, a lungo andare, diventerà motivo di noia.
A un trentenne, spesso laureato, con cinque-sei anni di esperienza pregressa e quindi con un background di competenze, consiglierei di orientarsi verso il mercato del lavoro più affine alle sue competenze. Sicuramente il trentenne dovrebbe concentrarsi attentamente rispetto a quello che ha finora conquistato, l’attività che sta svolgendo, e proiettarsi verso un obiettivo di crescita cercando di raggiungerlo a tutti i costi.
Mentre al cinquantenne che, di solito, è il manager che ha consolidato competenze altamente qualificate, consiglierei di creare dei rapporti solidi tra la direzione e i suoi collaboratori, cercando di proiettarsi in avanti di dieci anni e capire come creare il suo ambiente lavorativo ideale. Un manager di cinquant’anni ha davanti a sé in genere ancora una quindicina di anni di lavoro, deve quindi guardarsi intorno per coronare la sua carriera, in un contesto che gli possa dare maggiore spazio e maggiore gratificazione in relazione alle competenze maturate.