Il film di Matteo Garrone che prova a raccontare un’altra «versione», quella dei migranti in cerca di futuro
di Serena Trivelloni
Il sorriso negli occhi, lacrime nel cuore e la sensazione di avercela fatta. Si conclude così, la scena finale di «Io capitano» con l’urlo di liberazione del suo protagonista, Seydou Sarr.
Difficile non commuoversi davanti alle immagini raccontate sapientemente dal regista Matteo Garrone, che alla prima di Roma spiega come l’intento principale sia stato mettere la macchina da presa “dall’altra parte”: «Siamo abituati a guardare i tg, vedere i migranti da fuori, conoscere solo la situazione finale. Ma non abbiamo mai una forma visiva dalla parte di chi affronta il viaggio. Abbiamo voluto comunicare una prospettiva diversa, dare la possibilità allo spettatore di viverlo in soggettiva e da dentro, attraversare con gli occhi di questi ragazzi i momenti di esaltazione e sconforto. È stato anche per gli attori stessi un andare all’avventura, nessuno di loro era a conoscenza della sceneggiatura perché volevo che giorno per giorno vivessero sulla propria pelle il desiderio di arrivare in Italia, senza sapere se ce l’avrebbero fatta o meno».
Garrone voleva la verità, non il realismo didascalico e il suo approccio è stato lo stesso di Gomorra, in cui i protagonisti non erano a conoscenza del loro destino fino a che non è stato il destino stesso a presentarsi alla loro porta. Le prime scene di «Io capitano» raccontano luci e ombre di un Senegal ricco di colori, amore e tradizioni. La povertà è sofferenza, ma al contempo sembra rendere straordinariamente umani e liberi. Di vivere e sognare un futuro migliore, magari in Europa, come i nostri due protagonisti Seydou (Seydou Sarr) e suo cugino Moussa (Moustapha Fall).
I colori della propria terra
«Devi respirare l’aria che respiro io» è la sentenza della madre di Seydou, totalmente contraria alle idee utopiche e battagliere del figlio. Un verdetto che sa di premonizione, perché il viaggio di questi due ragazzi si trasformerà presto in un incubo. Solo a quel punto risulteranno ancora più vividi, accudenti e accoglienti i colori della propria terra, gli odori e i profumi dei luoghi d’appartenenza. Il rito di consenso delle anime dei morti per rendere propizia la partenza dei due giovani non sembra essere bastato. È forse una condanna desiderare un futuro migliore e un oltraggio sfidare le sacre leggi della terra e del mare?
Garrone lascia immergere lo spettatore in un climax di sventurati eventi a cui andranno incontro i nostri protagonisti. Dalle «creste» sui passaporti, ai passaggi illegali, alle truffe nel deserto. Qui vi è il primo scontro di Seydou con la vita e la morte. Tra il non voler lasciare nessuno indietro e il dover andare necessariamente avanti. Perché una volta deciso di intraprendere il viaggio non esiste altra direzione possibile. Le immagini delle prigioni, in cui la mafia libica sbatte i migranti intercettati nel deserto senza pietà né dignità per l’essere umano, tracciano nelle nostre coscienze un segno indelebile.
L’impressione è quella di toccare con mano la realtà, senza nessun filtro e finzione. Come spiegato anche dal regista, molti dei personaggi che hanno partecipato al girato hanno avuto modo di vivere in prima persona e raccontare quella giostra infernale fatta di tortura, desolazione e umiliazione. Prigioni che non hanno nulla da invidiare ai lager nazisti in cui si viene divisi per nazionalità, etnia e professione. La disumanità d’altronde non ha né razza né colore, e sembra un concetto che Garrone lascia intendere alla perfezione lasciando spesso e volentieri più spazio alle immagini che alle parole.
Ricatto o riscatto
E poi il ricatto finale, quello che in realtà Seydou trasformerà in riscatto: diventare il capitano della salvezza. Sfidando con sfrontatezza e disperazione la malasorte, il vento sfavorevole, i «no» ricevuti dalle guardie costiere. Una sequenza che si estende «in lungo e in largo» per enfatizzare l’idea della profondità del viaggio, della lunga durata, dell’attesa che sembra non finire mai. Con un unico comandamento in mente: andare avanti, «tutto dritto» con la promessa di riuscire a farcela, di non lasciare indietro nessuno, davvero.
Però un film rimane un film, con il risvolto positivo di chi vuole trasmettere un messaggio – seppur molto amaro – di speranza. La storia vera, quella a cui sembra essersi ispirato in parte il regista, è quella dei due migranti Fofana Amara e Mamadou Kouassi, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e finito in carcere per sei mesi dopo aver portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione salpata dalla Libia.
È una storia a cui siamo abituati ad assistere con grande impotenza tutti i giorni, quella dei migranti che non riescono ad approdare sulle nostre rive o le cui condizioni, se sopravvissuti, risultano molto precarie. Ce lo insegnano Lampedusa, Cutro. Ce lo insegnano gli hotspot pieni e i centri di prima (mala) accoglienza. Ce lo insegnano i sindaci in difficoltà che chiedono aiuto e gli indugi dei governi.
Lo schiaffo
«Io capitano» e le timide lacrime di Seydou Sarr al Festival di Venezia, per aver raggiunto probabilmente un traguardo impensabile fino a poco tempo fa, sono uno schiaffo. Ai decreti legge, al mancato dialogo tra Stati, alla criminalità organizzata che gioca sulla pelle delle persone, ai finti moralismi, alla paura del diverso. Alla fine del film tante le emozioni impresse negli occhi degli spettatori e un’unica riflessione. Quale Stato può alzare la mano, puntare l’indice e decidere arbitrariamente chi sì, e chi no? Quale giudice? Quale Dio?
Buon viaggio