L’INCHIESTA ANTICAMORRA A MELITO E MUGNANO Il pentito: c’erano anche gli affiliati che lavoravano a provvigione
All’alba dello scorso martedì, un blitz interforze ha colpito duramente il clan Amato-Pagano, radicato soprattutto nei territori di Melito e Mugnano (comuni della provincia nord di Napoli, a ridosso del quartiere di Secondigliano). Trentuno le persone finite in arresto (22 in carcere, 9 ai domiciliari). In totale, 44 indagati, che devono rispondere, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, intestazione fittizia di beni, traffico di stupefacenti, tutti reati aggravati dal metodo mafioso. Il filone principale dell’inchiesta è relativo al racket delle estorsioni.
Le indagini hanno fatto emergere che accanto alla modalità classica delle tre rate del pizzo – che centinaia di commercianti erano costretti a corrispondere ai camorristi a Natale, Pasqua e a Ferragosto -, la cosca imponeva anche l’acquisto di gadget natalizi. Allegate all’ordinanza a firma del gip Saverio Vertuccio, ci sono le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia. Uno di questi, Carmine Cerrato (classe 1971), parla, nello specifico, del comparto che si occupava di avanzare le richieste estorsive, e della raccolta del denaro.
Le percentuali
sui lavori edilizi
«Ho partecipato alla gestione del settore delle estorsioni del clan, per cui ho saputo che per tutte le costruzioni di Melito, Mugnano e Casavatore, il clan imponeva e percepiva una percentuale che variava in base al valore dell’opera», afferma il pentito. Che rendiconta anche di una sorta di listino prezzi: «Per esempio, se l’opera era inferiore a un valore di 100mila euro, noi prendevamo l’8%; se era superiore ai 100mila euro, prendevamo tra il 3 e 4 per cento. Discorso a parte vale per le mansarde: a seconda della grandezza, chi costruiva, pagava 5 o diecimila euro».
Il pentito rendiconta anche di quanto toccava ai singoli estorsori. «Quando alla guida del clan c’era Cesare Pagano, gli stipendi più alti si aggiravano sui 4mila euro al mese, più i regali che faceva il capoclan», afferma Cerrato. E poi c’era chi lavorava a provvigione nel senso che non era stipendiato ma «veniva pagato a percentuale, sull’importo del lavoro pubblico che riusciva a far prendere al clan».