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Home Editoriale

I murales di Ugo e Luigi sono le cambiali mai incassate del mondo di mezzo

di Maria Neve Iervolino
4 Novembre 2020
in Editoriale
Tempo di lettura: 3 minuti
Il murale dedicato al baby-rapinatore Ugo Russo comparso ai Quartieri Spagnoli (foto di repertorio)

Il murale dedicato al baby-rapinatore Ugo Russo comparso ai Quartieri Spagnoli (foto di repertorio)

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I volti dei due ragazzi uccisi durante altrettanti tentativi di rapine suscitano ora sdegno, ma rappresentano – alla perfezione – l’altra faccia di Napoli. Quella che a nessuno conviene raccontare

di Simona Ciniglio

Chi può fermare la corsa della Napoli verticale, il racconto che da qualche anno si arrampica sui muri della città: colonizza pareti aspirando al cielo? Quei ritagli di azzurro in cima ai palazzi suggeriscono da mezzo millennio almeno, che non solo il mare non bagna Napoli ma neanche il cielo vuol saperne. Troppo copre l’ombra dei vicoli, e che la tenebra si allunghi dai cuori ai basoli (o viceversa); si nutra di polvere o parli la lingua ronzante degli scooter: che importa?

Nella piazzetta Parrocchiella, nel cuore dei Quartieri Spagnoli gli occhi di Ugo Russo adesso non ti staccano gli occhi di dosso. Non sono occhi di un 15enne, ma due pozze di buio impenetrabile che chiedono verità e giustizia. La notte del 29 febbraio è stato ucciso da un carabiniere fuori servizio che ha reagito a un tentativo di rapina del ragazzo, sparando.

Poche settimane prima in via dei Tribunali un altro volto è apparso su un altro muro. Quello di Luigi Caiafa, 17 anni, anche lui morto durante un tentativo di rapina, colpito da un proiettile esploso da un poliziotto. I due murales sono due grosse domande della comunità, interrogativi che affondano le loro radici lontano nella storia, nel male – che è uno solo, come la città che piace raccontare divisa – e che dall’ombra aspirano alla luce, a essere viste e riconosciute.

I tatuaggetti sulla pelle di Partenope sono un trend in costante rialzo. Si chiama Jorit, poi nuovamente si interpella Jorit e infine si vede se Jorit ha tempo per un nuovo pezzo che risulti abbastanza ecumenico e politically correct, che rappresenti bene una human tribe alla ricerca di un’identità accattivante tra il comunismo primitivo e l’urban culture.

Grandi storie per sognare e una sola costante prerogativa: che sia uguale a tutti gli altri.  Come certe principesse azteche spiaggiate sul litorale cittadino nella bella stagione, finiscono per raccontare quasi sempre una storia discontinua, tentativi di creatività e sprovincializzazione a coprire una grossa confusione.

 C’è un tipo di politica che vive e lotta nei comunicati stampa, non paga degli onori dell’attenzione social rimbalza messaggi sfuggiti senza grossi rimpianti, e di queste storie senza cielo si fa opposizione: non stupisce la contiguità, questione di altezza, di volte e soffitti sempre troppo bassi per lasciar circolare una lingua comune, per avere una visione d’insieme.

Questa politica di sciarpine e moralismo a molla, di consiglieri regionali che si servono di megafoni che ingaggiano altri megafoni per coprire un forte rumore di nulla, ribadisce il canone non formalizzato: che il murale deve avere una sua edificante storia,ma anche farsi portatore di non si sa quale messaggio fuori dalla storia, visto che Napoli è una città dove i ragazzini che tentano rapine a volte ci lasciano la pelle e non è una storia bella, ma è quello che succede.

Anche perché a ricordarla la Storia vera di questa città, non si tarderebbe a mettere in relazione i due nuovi murales, fantasmi in una città di fantasmi, all’artista che li ha realizzati, Leticia Mandragora -e sì, esistono anche altri street artist- e all’altro suo murale, quello di Eleonora Pimentel Fonseca. Lenòr che voleva elevare a popolo la plebe, in quel breve sogno che fu la Repubblica del 1799, e la massa anarchica e feroce che rigettò con violenza un’occasione: città che ripete la sua storia, che chiede di sanare le ferite.

Oggi la borghesia piccola piccola che ammansì la plebe senza essere in grado di costituire una classe dirigente e un’imprenditoria -e con queste coscienza sociale e identità riconosciuta al sottoproletariato- torna a tremare quando la plebe si rivolta, a blandirla quando la teme, e a chiamarla lazzarona e stracciona quando si sente a distanza di sicurezza. Ma quella sta sempre là -forza archetipica- e sarà sempre, come il sole e la pioggia, finché non sarà vista. Il giochino delle responsabilità del singolo ha come rovescio della medaglia il dovere di fornire alternative. E no: Ugo e Luigi non ne hanno avute.

Tags: luigi caiafaUgo russo
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