Il sorriso di Tommy
di Giancarlo Tommasone
Edda la scimmia era in calore e quella notte non faceva altro che urlare per attirare i maschi. Ogni tanto azzannava le sbarre e i canini gialli raccoglievano il rosso sangue dalle gengive lasciando segni di luna sporca nel buio. Tommy afferrò i fiammiferi e li sentì ballare nella scatola. C’è una leggenda sui fiammiferi, forse per questo li aveva sempre preferiti all’accendino.
Beh, la leggenda ha a che fare
con soldati e cecchini,
roba della guerra, per intenderci
Il soldato accende la sigaretta, poi passa il fiammifero al commilitone che è con lui in trincea e dall’altra parte il cecchino segue la linea della fiamma e preme il grilletto e boom, il secondo soldato non c’è più. E’ per questo che con un fiammifero si accende una sigaretta soltanto. Si rigirava nel letto e non riusciva a dormire, Tommy. L’odore pesante degli elefanti arrivava fino alla piccola finestra di plexiglass.
Accese un fiammifero e nel frattempo partì più forte il ronzio dell’accumulatore a gasolio che gli stava sotto il culo
Afferrò lo specchio e vide quel sorriso del cazzo che non riusciva ad abbandonargli la faccia. Forse, ricordò, forse la bottiglia non gli aveva dato il tempo di pulirsi bene, si rese conto che aveva ancora i vestiti colorati e quella stronzata di mezza cravatta gialla al collo. Allentò il nodo e provò un po’ di sollievo. Il fiammifero si spense. Matteo la scimmia scavalcò il piccolo cancello divisorio e cominciò a mordere Edda dietro al collo, poi la penetrò urlando come un ossesso. Quarant’anni pensò Tommy, quarant’anni costretto a ridere per vivere, lui che non riusciva nemmeno più a ricordarselo un sorriso vero. Lo ritrovava sulla bocca dei ragazzini, lo inchiodava al muro quello storto e grigio delle donne di paese che lo salutavano quando entrava nelle latterie per la solita bottiglia, la stessa da quarant’anni, gin della stessa marca. Pensò a Nadia, la ballerina russa, che adesso continuava a fare la spaccata nel bordello ‘Essenza’.
La spaccata, la fica, come dei sorrisi
Matteo era rientrato nel suo gabbiotto col cazzo moscio e umido, Tommy accese il secondo fiammifero e si mise a fumare. La stessa fiamma passò ad alimentare la lampada ad acetilene. Pensò ai soldati, al cecchino e a tutto il resto. Si mise a sedere, afferrò di nuovo lo specchio e lo posizionò al centro della piccola scrivania. Sì, adesso ricordava. La faccia se l’era pulita ma era da un po’ che il sorriso non si scollava dal volto. Due labbra rosse e gonfie da battona; un paio di labbra da balera, quelle portate dalle vecchie di Cesenatico o di Forlì il sabato sera, con le minigonne di pizzo nere e i mezzi guanti alle mani. Cazzo, non se ne va in nessun modo, pensò Tommy tossendo e subito afferrò la bottiglia con l’ultimo quarto di gin. Cominciò a trovare spazio con il latte detergente e le lacrime nere finirono asciugate dall’ovatta. Passò a riempire il dischetto per staccarsi il contorno verde dagli occhi, arrivò il momento di attaccare il sorriso e finalmente, dopo vari tentativi, riuscì a tirarlo via.
Il fumo della sigaretta lo fece lacrimare,
l’ultima boccata, poi gettò la cicca nella bottiglia vuota
Si rimise seduto sul letto, piegato in due, le buffe scarpe nere di dieci misure più grandi. Cominciò a slacciarle, ma ogni volta le dita cadevano sconfitte e i nodi si facevano più stretti. Dovette rialzarsi e allora rimase di pietra, perché lo specchio sulla scrivania gli rimandò la faccia colorata. Sono troppo ubriaco, pensò. Eppure la testa e i passi erano fermi, cominciò a fare avanti e indietro seguendo la linea centrale delle doghe del parquet laminato ciliegio. La camminata era regolare, non come quella dell’ultima volta. Dove si trovava, allora?
(I – Continua)