di Giancarlo Tommasone
Non si può dare un prezzo alla vita umana, ma qui non si tratta di soldi, piuttosto di una acclarata vittima innocente della camorra che lo Stato non vuol riconoscere. Il suo nome era Gelsomina Verde, fu ammazzata durante la prima faida di Scampia. Ammazzata è un eufemismo, poiché Mina – come tutti la chiamavano – fu prima sequestrata, poi torturata e infine data alle fiamme. Del suo corpo di giovane donna il fuoco risparmiò solo parte di una gamba, ultimo baluardo di carne morta sopravvissuta allo scempio del rogo. Carne morta. Innocente. Come riportato da Fabio Postiglione sul Corriere del Mezzogiorno, l’Avvocatura dello Stato e il ministero dell’Interno hanno negato ai familiari della ragazza il risarcimento disposto per le vittime innocenti della criminalità. Le ragioni?

La prima: un cugino di secondo grado del padre di Mina aveva avuto precedenti di tipo associativo. Un parente che nessuno della famiglia della giovane, né tantomeno quest’ultima, aveva mai e poi mai frequentato. La seconda: un risarcimento di 300mila euro che Cosimo Di Lauro aveva proposto al nucleo familiare di Mina. I soldi, di natura lecita, provenienti da un indennizzo di un’assicurazione per un incidente occorso a Cosimino, erano stati accettati.

La decisione, legittima e non ostativa per ricevere l’indennizzo dello Stato, ha invece influito sulla mancata concessione del vitalizio. Contro tale decisione si è ricorsi in appello, il giudice monocratico della V sezione è chiamato a pronunciarsi tra due settimane. Ci sono ancora aspetti da far emergere sul barbaro omicidio di Mina Verde. C’è una certezza, però: Mina è una vittima innocente della criminalità. Se non si concede il risarcimento si nega il suo status.

Non ci si può e non ci si deve nascondere dietro l’applicazione cavillosa di una norma. La verità è chiara da anni, immediatamente dopo il ritrovamento del corpo annichilito di Mina. La ragazza, certificano le indagini, i pm, le sentenze, i collaboratori di giustizia e la sua condotta, era totalmente estranea ad ogni logica criminale. Fa una certa impressione rileggere i verbali del pentito Pietro Esposito, che risalgono al 2005, ma invitiamo anche i giudici a farlo. Sono le ultime ore di Mina, poi arriveranno la tortura, il fuoco e la morte.
«Ho iniziato a parlare con Mina, senza scendere dall’auto. Dopo una decina di minuti, vennero su un ciclomotore tipo Sh di colore nero, Ugo De Lucia alias Ugariello, Pasquale Rinaldi e Luigi De Lucia», dichiara Esposito al pm Giovanni Corona. «Luigi e Pasquale con tono minaccioso entrarono nell’auto dove si trovava Mina e dissero alla ragazza di spostarsi, visto che lei sedeva sul sedile del guidatore. Al suo posto – continua Pietro Esposito – si mise Luigi, mentre Pasquale si sedette dietro. Ugo si avvicinò a me e mi disse di tornare a casa… Mina era impaurita dall’atteggiamento dei tre, ma Ugo mi tranquillizzò, dicendomi che non le avrebbe fatto nulla e che dovevano solo chiederle dove si nascondessero i compagni, facendo riferimento a Sarracino (Gennaro Notturno, nda) e agli altri ragazzi che lei normalmente frequentava. Io tornai quindi a casa, ma mentre stavo andando via vidi che alla Seicento si accodò una Y10 di colore blu metallizzato, che era condotta da Sergio De Lucia, zio di Ugo e di Luigi. Essi lasciarono il luogo dove mi ero incontrato con Mina, intorno alle 23.10».

«Preciso che quando vidi Pasquale prendere posto sul sedile di dietro, mi accorsi chiaramente che egli aveva una pistola nascosta nel suo giubbotto, in quanto per sedersi dovette prenderla tra le mani e riporla tra le gambe. La pistola era di tipo semiautomatico, una calibro 9×21 di colore cromato…».
Poi i tre ragazzi si allontanarono a bordo dell’auto di Mina con Sergio De Lucia che li seguiva con un’altra auto.