Stylo24 ha intervistato il radiocronista Rai, voce storica e inconfondibile della narrazione calcistica
di Giancarlo Tommasone
Le sue radiocronache stanno impreziosendo ulteriormente le gesta azzurre in una stagione che si avvia a diventare leggendaria per il club, una stagione che sta riscattando il calcio italiano agli occhi del mondo. Stylo24 ha intervistato Francesco Repice, voce storica e inconfondibile della Rai.
Tutti pazzi per i gioielli azzurri, Osimhen o Kvaratskhelia. Dalle radiocronache trapela una sua maggiore predilezione per il secondo, legata forse all’idea che il georgiano dà di calciatore di una volta. È così?
«Kvara è uno di quei calciatori scandalosamente diversi dalla normalità. L’ho detto e lo ripeto, mi ricorda George Best. Ho sempre avuto ammirazione per atleti del genere perché fondamentalmente sono innamorato di questo gioco. Ho avuto la fortuna di fare il bordocampista per anni e vedere da vicino quello che facevano giocatori del calibro di Zidane, Pirlo, Del Piero, Totti. E rimanevo sempre ammaliato, rapito dalla loro azione sul rettangolo verde. Il georgiano ha la capacità di andarsene ondeggiando, di sterzare, di cambiare direzione, di toccare la palla molte volte e in elevata velocità, cose che disorientano… o è più corretto dire, fanno impazzire gli avversari».
Kvara? È uno che rompe le porte
Il gol di Kvara contro l’Atalanta al Maradona è già entrato nell’epica del calcio. Praticamente un solo calciatore attorniato da otto avversari. Dopo la realizzazione, lei ha detto: il suo piede è un’estensione del suo pensiero…
«Quell’azione è sublimata dal fatto che conclude a rete non tirando a giro. Non voglio parlar male di nessuno, ma è da tempo che non sopporto quei calciatori che arrivano davanti alla porta e cercano di girarla col piatto. Kvara è uno che rompe le porte e sono affascinato da calciatori così, sarà per il fatto che sono abituato a uno come Batistuta, che visto dal campo, quando il pallone incrociava da destra e lui arrivava in corsa, i portieri si spostavano perché pensavano: questo lo prende e mi fa male».
E a proposito di gioielli azzurri… Osimhen ha già fatto capire che questo potrebbe essere il suo ultimo anno al Napoli. Il georgiano quanto ancora potrebbe restare?
«Queste sono vicende di cui non so, che dipendono da dinamiche che non conosco. Mi sono ripromesso di non parlare più di questo argomento per un semplice motivo: si tratta di cose che viaggiano sopra le nostre teste, questioni finanziarie, di contratti, di manovre che spostano decine se non centinaia di milioni di euro. È un mondo che io non riesco a percepire, a comprendere e quindi preferisco stare zitto. Spero semplicemente che questi ragazzi capiscano che è la loro vita e facciano il meglio per la loro vita. Poi del resto, a Napoli, non mi sembra che si viva male. Non mi pare proprio».
Futuro dei gioielli azzurri, facciano il meglio per la loro vita
Facendo i dovuti scongiuri per la conquista del torneo, il Napoli potrebbe aprire un ciclo?
«Sì, anche se bisogna applicare lo stesso ragionamento fatto pocanzi sul futuro di Osimhen e Kvaratskhelia. Quello che posso dire è che il Napoli dal punto di vista della organizzazione societaria ha dato una lezione a tutti. Ha cambiato quasi radicalmente quello che era riconosciuto da tutti come un ottimo impianto di squadra, una squadra con calciatori molto forti, ed ha avuto ragione. Dietro una cosa del genere c’è un lavoro molto importante da ogni punto di vista, societario, di scouting, di direzione sportiva, tecnica. Un lavoro fatto da una società che dà fiducia ai suoi, un lavoro da top club. In questo senso il presidente De Laurentiis ha ragione quando sottolinea di aver fatto un simile percorso abbattendo il tetto ingaggi, portando nuovi giocatori di livello e ottenendo risultati. Io penso che i tifosi del Napoli non possano chiedere di meglio, e devono essere orgogliosi di questa società».
I tifosi devono essere orgogliosi di questa società, il Napoli è un top club
È il Napoli più bello della storia?
«Io ho sessant’anni, li ho compiuti da poco. Sono un nostalgico, sono innamorato di questo gioco. Non sono tifoso del Napoli, ma dei calciatori. Ho ancora negli occhi quella roba lì (Maradona, ndr), è ancora troppo bella per essere paragonata ad altro. E lo dico per tanti motivi, non solo perché c’era il più grande giocatore di tutti i tempi, ma anche per quello che lui ha rappresentato per le persone. È una cosa talmente grande che sinceramente faccio fatica a fare paragoni».
Il Napoli di Diego è una cosa ancora troppo bella, faccio fatica a paragonarlo a altro
Nel racconto di una partita, riesce a mettere sempre il match in primo piano nonostante adotti uno stile sudamericano che focalizza inevitabilmente l’attenzione su chi narra. Questo non sempre capita quando si ascoltano alcuni suoi colleghi, soprattutto telecronisti di ultima generazione, accusati spesso di autocelebrarsi. Secondo lei, questa sorta di protagonismo quanto toglie alla narrazione? O in caso contrario, la arricchisce?
«Al riguardo posso dire una cosa: ognuno, ha il suo modo di parlare di una partita di calcio. Io credo che nessuno dei radiocronisti o dei telecronisti prepari il proprio modo di raccontare un match. Io sono convinto del fatto che non si faccia nessuno sforzo a enfatizzare o a rendere più asciutta la cronaca di un’azione di gioco, e magari a diventare più o meno protagonisti rispetto al fatto che si sta manifestando in quel momento davanti ai tuoi occhi con i calciatori in campo. Non faccio alcuna fatica a esaltarmi per una bella giocata, o allo stesso modo, a trasmettere all’ascoltatore delusione e magari sconforto per un’azione per niente riuscita. In questo secondo caso lo faccio capire anche dal tono della voce, stando comunque attento a restare quanto più possibile pacato, per non offendere la sensibilità di nessuno. A me viene tutto spontaneo, non c’è nulla di preparato, ma credo che sia così per tutti i miei colleghi. Personalmente, il mio problema, lo ripeto, è che sono veramente innamorato di questo gioco…».
Problema… perché?
«È un problema perché nel solco dei radiocronisti Rai è difficile accettare un modo di raccontare l’evento che vada al di là della linea di condotta che impone il servizio pubblico. Ma a me, purtroppo, questa cosa proprio non riesce, è più forte di me. Io quando vedo un gol come quello di Khvicha contro l’Atalanta non mi trattengo, perché la bellezza è talmente tanta, talmente prepotente che non riesco a controllarla anche nel tono della voce. E capisco che ad alcuni questa cosa può piacere, ad altri no. Ma non riuscirei a fare di meglio. Io, ad esempio, quando sono alle prese con la radiocronaca dell’Italia, nei match importanti, provo un supplizio, sto male mentre racconto la partita della mia maglia, della mia Nazione, del mio Paese, della mia cultura, dei miei colori».
Lo spirito puro e originario del calcio va preservato
Come sta il calcio? Ha ancora margini di crescita in termini di appeal o sta già implodendo? Riesce ancora ad attrarre le giovani generazioni?
«Lo sforzo che faccio nel mio piccolo è quello di continuare a far amare questo sport. A cominciare dalla mia famiglia, lo faccio con i miei nipoti cercando di far loro apprezzare la bellezza di un gesto tecnico, la bellezza di uscire col panino nella borsa e la sciarpa mentre si va allo stadio. La bellezza di ritrovarsi con i propri amici e parlare della partita prima e dopo che si è giocata. Io penso che questo tipo di approccio nei confronti dei propri colori e in più generale del calcio, debba tornare. Per questo sono innamorato del calcio di provincia, di quelle piazze in cui è più diretto il rapporto tra i tifosi e la squadra. Io credo che se si spegne questo tipo di attaccamento positivo che coinvolge, include e ti fa battere il cuore, è finito tutto. Voglio dire: quando davanti all’ingresso del garage del Maradona vedo tante persone, tantissimi ragazzi che aspettano lì il pullman del Napoli, per guardare negli occhi anche per un istante i calciatori, il mister, o per cantare un coro, per sostenere la squadra, assisto a qualcosa di vero e di profondo. E questo spirito va preservato, nutrito, fatto crescere perché è l’unico modo che abbiamo per salvare il calcio e far sì che continui a far innamorare di sé».
Che cos’è il calcio per Francesco Repice?
«È il luogo della mia anima».
E il tifo?
«È una malattia d’amore».
Lo stadio? Il tempio dei sogni e degli incubi
Cos’è lo stadio?
«È il tempio dei sogni ma anche degli incubi. Sono passati 40 anni, ma uno degli incubi più ricorrenti che faccio, e lo dico da tifoso romanista, è quello della finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool».
L’evento più epico che ha raccontato?
«Sicuramente la vittoria del Campionato europeo. E devo confidare una cosa: io prima di ogni partita importante, come è stata la finale contro l’Inghilterra, ho sempre paura, penso sempre che le cose potrebbero andare male. E poi se vanno bene, come quando ho visto Donnarumma parare il rigore decisivo, impazzisco. Impazzisco davvero».
Il più grande? Nessun dubbio: Maradona
Il più grande calciatore della storia?
«Non ho nessun dubbio: Diego Armando Maradona. Lo ribadisco, per tanti motivi: per il suo coraggio, la sua forza, la sua bellezza, per tutto. Per me Maradona è stato un punto di riferimento. A molti sembrerà un paradosso, ma cadere e rialzarsi più volte, mostrando a tutti quello che si è, con i propri limiti e i propri difetti, credo che sia da grandi uomini. E lui per me è stato anche un grande uomo».