L’attore: i ruoli italiani devono essere interpretati da attori italiani
di Serena Trivelloni
Opinioni espresse con grande garbo e risolutezza. Non pensava – o forse sì – di sollevare un polverone Pierfrancesco Favino, uno degli attori più amati e apprezzati del cinema italiano. Lo aveva detto al Festival di Berlino, e lo ribadisce adesso in occasione della Mostra del Cinema di Venezia: «Il pubblico italiano tornerà ad avere fiducia nel nostro cinema quando vedrà gli attori italiani entrare nelle produzioni internazionali. È la piccola battaglia che io sto facendo per la quale dico che i ruoli italiani devono essere interpretati da attori italiani. Perché nel momento in cui Alessandro Borghi, Sabrina Impacciatore, un Luca Marinelli sono in una produzione internazionale, o Riccardo Scamarcio recita in un film di Kenneth Branagh improvvisamente il pubblico italiano si sente rappresentato e ne riconosce il valore».
«Giusto o no che sia – continua -, penso che il nostro pubblico purtroppo riconoscerà la professionalità italiana se riuscirà ad entrare in quello che considera essere il mondo di serie A. Nessun Paese al mondo sta consentendo – giustamente – a Pierfrancesco Favino di fare Kennedy o Tom Ford. Mentre noi diciamo che la famiglia Gucci è italoamericana. Se un cubano non può fare un messicano perché un americano può fare un italiano? Solo da noi. Ferrari in altre epoche lo avrebbe fatto Gassman, oggi invece lo fa Driver e nessuno dice nulla. Mi sembra un atteggiamento di disprezzo nei confronti del sistema italiano, se le leggi comuni sono queste allora partecipiamo anche noi. Della serie: le regole devono valere per tutti, soprattutto perché chi viene qui ha un risparmio del 45% di tasse».
Un pensiero oggettivamente condivisibile
Riportato quasi integralmente il pezzo di Favino senza cercare di strumentalizzarlo come alcuni colleghi hanno ritenuto opportuno fare, è un pensiero oggettivamente condivisibile che il cinema internazionale sia più “ospite” nel nostro paese di quanto quello italiano venga esportato fuori dalle mura di casa. Anche se in questi anni è stato notevole lo sforzo di quanti hanno cercato di invertirne il processo: basti pensare al successo di serie come Gomorra e Suburra, o ancora l’Amica Geniale, serie italo-statunitense creata da Saverio Costanzo.
Il discorso può essere fatto a parti inverse: quanto è giusto considerare il sistema americano o internazionale come quello di Serie A, e quanto è corretto muoverci noi verso di loro invece che loro verso di noi? Un attore, come detto dallo stesso Favino: «è libero di pensare di essere una giraffa belga. Quello è il nostro mestiere, noi esistiamo per essere quello che non siamo». Ma dovrebbe esserne riconosciuto il valore sempre, al di là della casa cinematografica o del sistema in cui viene inserito.
Soprattutto se il film, e l’attore in questione, sono «di nostra produzione». E invece vi è la costante sensazione che solo venendo introdotti nei circuiti internazionali e svolgendo co-produzioni vi sia un reale riconoscimento artistico, una sorta di doveroso «salto di qualità» nella carriera di un’artista. Quanto quindi bisognerebbe spronare il cinema italiano ad entrare nelle produzioni internazionali e quanto invece bisognerebbe internazionalizzare le nostre produzioni cinematografiche senza vederle morire giorno dopo giorno? Il dubbio è amletico e la risposta ardua. Soprattutto perché posto da uno dei pochi attori che in realtà il confine lo ha varcato diverse volte, interpretando ruoli in film importanti quali Rush, Angeli e Demoni, Promises, World War Z. Nulla però di evidentemente paragonabile a quello del collega Adam Driver in Ferrari.
La solidarietà dei colleghi
Molti registi, attori e produttori hanno mostrato solidarietà alle parole di Pierfrancesco, rilasciandoci diverse dichiarazioni. Tra questi il regista Pupi Avati: «Visto che capita spesso che gli americani facciano film sugli italiani, ha perfettamente un suo senso che siano interpretati da italiani. Ferrari, un modenese, che viene dal Nebraska, fa un po’ ridere… Quando ho girato il film su Dante Alighieri, noi siamo stati tentati, sedotti dall’idea di farlo interpretare da Al Pacino. Ma per quanto lui sia un italo americano, poi ci siamo ricreduti. E grazie a Dio abbiamo scelto Sergio Castellitto e Alessandro Sperduti, quindi attori italiani».
Sullo stesso tono anche il commento di Edwige Fenech, attrice e produttrice francese naturalizzata italiana, citata da Repubblica: «Favino ha ragione, gli americani hanno avuto molto più spazio nei film italiani che non il contrario. Anche se Favino ha fatto diverse partecipazioni in film americani, ma non possiamo assolutamente fare un paragone. Anche nel film Gucci, per carità gli attori sono grandi attori, ma non sono italiani, oltre al fatto che sul film bisogna stendere un velo pietoso, non è certo il modo giusto di dipingere una famiglia».
Mentre per Gabriele Salvatores noto regista e sceneggiatore italiano: «la situazione è molto più complicata di quanto sembri. Bisognerebbe riflettere in maniera più approfondita e comunque il fatto che oggi ne stiamo discutendo dimostra l’importanza del tema». A sostenere l’attore romano anche Paolo Calabresi e Alessandro Siani che, sorridendo durante un’intervista, lo definisce «Diego Armando Favino».
Le critiche a Favino
La condivisione però non è stata totale. C’è stato anche qualcuno come l’attore Edoardo Pesce, presente anche lui al Festival di Venezia con «El paraiso», che ha preferito dissociarsi dalle parole del collega: «È un po’ come nel mio piccolo quando ho interpretato il mafioso Giovanni Brusca e un attore palermitano alla Vucciria se l’è presa con me che non ero siciliano. Ho imparato il dialetto, il coach mi mandava delle frasi su cui esercitarmi anche se quasi non capivo cosa volessero dire, il linguaggio si può apprendere. Per me Adam Driver può fare Ferrari, ciò che conta è la caratterizzazione significativa del personaggio». O ancora, le parole di alcune testate giornalistiche che definiscono Favino come un: «capopopolo della gauche cinematografica italiana che si riscopre sovranista a convenienza e rivendica il diritto di interpretare personaggi italiani».
Non entrando nel merito di tali dichiarazioni, la considerazione finale è che forse bisognerebbe porre una riflessione seria sui fondi e gli investimenti previsti per il nostro cinema. Forse, aumentando risorse e le possibilità di distribuzione e produzione, si riuscirebbe ad aumentarne la credibilità e la diffusione anche a livello internazionale. Così che lo scambio tra attori, registi e case cinematografiche possa diventare finalmente equo e alla pari. Così da non dover parlare più di circuiti di serie A e serie B, dove la spasmodica ricerca dell’«essere internazionale» non sia più vissuta come un dovere, ma come un valore aggiunto. Dando vita, parafrasando Balázs ( Pseudonimo di Hermann Bauer, scrittore, teorico del cinema e sceneggiatore ungherese) ad una «Visuelle Kultur», Cultura Visuale, in grado di superare le frontiere e unire mondi, linguaggi e culture differenti.