Di seguito uno stralcio del libro «Oltre la Trattativa» (Edizioni Iuppiter, 2017) scritto dal sottufficiale dei carabinieri Vincenzo Zurlo. Una coraggiosa controinchiesta che demolisce il processo sulla presunta Trattativa Stato-Cosa nostra, di cui si è occupata negli ultimi anni la Procura di Palermo, e suggerisce la pista dell’informativa mafia-appalti per spiegare la stagione delle stragi e l’omicidio di Paolo Borsellino.
Mafia-appalti, oltre al mai sopito odio di Riina e Bagarella, è il movente principale delle stragi. Inclusa quella ai danni di Paolo Borsellino, benché una letteratura giudiziaria contemporanea, ancora al vaglio da parte delle Corti d’Assise di Palermo (processo trattativa) e di Caltanissetta (processo Borsellino quater), dica altro. Benché quella letteratura sostenga invece che la trattativa tra Cosa Nostra e pezzi della politica ci sia stata e che Borsellino venne ammazzato perché la scoprì e cercò di opporsi. La verità è che l’inchiesta sulla tangentopoli siciliana avrebbe rappresentato l’ennesimo duro colpo, in termine di condanne, ma soprattutto economico, a Cosa Nostra. I due magistrati eroi che, in momenti diversi, mettono mano all’indagine sugli appalti subiranno ostacoli ed emarginazione da parte del capo della procura e dei propri colleghi. Ecco perché Falcone prima e Borsellino poi, parleranno di isolamento, di un sistema guasto, putrefatto e contaminato alludendo anche, e soprattutto, ad una parte della magistratura.
Ai due magistrati che maneggiano l’indagine tocca, com’è noto, lo stesso destino. Giovanni Falcone muore il 23 maggio del 1992. Muore in autostrada di rientro da Roma. Muore con la moglie Francesca Morvillo e con tre agenti di scorta, Vito Schifani, Antonio Montinari e Rocco Dicillo. I cinque viaggiano su due auto blindate. Falcone ne guida una. Quando Giovanni Brusca, appostato sulla collina di fronte, fa brillare i 500 chili di tritolo che cambiano la storia del Paese. Paolo Borsellino perde la vita poche settimane dopo. Il 19 luglio una Fiat 126 rubata salta in aria strappando la vita al giudice e a cinque agenti della scorta. Cosa Nostra aveva usato 90 chili di esplosivo.

In tre mesi i corleonesi chiudono la loro partita con i due magistrati che, seppur con risultati diversi, avevano iniziato a rimestare nel fango di mafia-appalti. Quando viene ucciso, Falcone era stato costretto ad abbandonare il fascicolo. Il palazzo dei veleni della procura di Palermo lo aveva neutralizzato, spingendolo a volare a Roma. Paolo Borsellino invece perde la vita nel momento esatto in cui riprende in mano il procedimento con la ferma volontà di capire perché le indagini si sono arenate. In un colpo solo Borsellino eredita il ruolo di scomodo di Falcone e la condanna a morte della mafia. Una condanna che Cosa Nostra aveva emesso già anni prima. Sia ai danni di Falcone che di Borsellino.
Ancora una volta sono i documenti giudiziari, e meglio ancora i racconti dei mafiosi pentiti, a consentire di scattare una fotografia del profondo rancore che Cosa Nostra nutriva verso i due magistrati. Giuffrè e Pucci – ascoltati nel corso di un processo tenutosi a Catania – affermano all’unisono, seppur usando parole diverse, che «i nemici storici di Cosa Nostra che erano personificati dal dottore Falcone prima e Borsellino dopo». Altri collaboratori di giustizia, a seconda delle proprie conoscenze, indicano invece i motivi per i quali Falcone e Borsellino s’erano attirati addosso le ire della mafia.

Giovanni Brusca è ancora più preciso. Nell’udienza del primo luglio del 1999, che scandisce il processo di primo grado sulla strage di via D’Amelio, ricorda:
«…già era stabilito l’eliminazione del dottor Giovanni Falcone a causa del suo operato, quindi il suo operato ha fatto frutti tutti negativi, quindi già era scontato … Giovanni Falcone già era un nemico storico… ripeto, non c’era bisogno di discutere, perché a cominciare già dall‘81 – ‘82, da quando lui cominciò a lavorare a Palermo e cominciò a fare indagini, il dottor Giovanni Falcone si cominciò ad interessare di… di mafia, prima con i cugini Salvo, poi con il processo dei 162, poi la… la confessione di Buscetta, cioè il pentimento di Buscetta, poi Contorno, poi “Pizza Connection”, l’operazione “Big John”, “Mafia e Appalti”, cioè il coinvolgimento Ciancimino, i Costanzo. Cioè, il dottor Giovanni Falcone c’è da fare un… un romanzo per tutto quello che lui faceva durante il suo cammino. Poi ha ripreso con “Mafia e Appalti’, poi all’ultimo… all’ultimo, quando poi c’era che lui aveva istruito il maxiprocesso, all’ultimo fu quando fu trasferito a Roma, non so se di sua volontà o per volontà dell’onorevole Martelli, andando a Roma per completare, diciamo, il suo lavoro e interessandosi per mettere fine al maxiprocesso e quindi dare… dare frutto al suo lavoro. Quindi, tutta l’operazione del dottor Giovanni Falcone era tutta negativa contro “Cosa Nostra”».

Falcone era una minaccia. Al pari di Borsellino. Anzi, a sentire Pulci, all’interno di Cosa Nostra s’era diffusa la convinzione che Borsellino «poteva fare più danni del dott. Falcone». Danni che il giudice via D’Amelio aveva già iniziato ad arrecare tempo addietro. Non a caso la mafia aveva già provato ad eliminarlo. È riportato dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nella sentenza del processo «Borsellino ter» contro «Agate Mariano + 26». Nel 1988 Paolo Borsellino manca, per pochi secondi, l’appuntamento con la morte. Dopo circa un mese di appostamenti i killer di Cosa Nostra, desistono perché la «cupola» ritiene strategicamente non più opportuno eseguire l’omicidio perché è imminente la sentenza d’appello del maxi processo e tale evento avrebbe potuto inasprirla. La Corte dirà che i giudici Falcone e Borsellino erano un chiodo fisso di Riina che, più volte ed a più persone, aveva manifestato l’intento di liberarsi dei due magistrati. I collaboratori preciseranno che si trattava dell’ennesimo progetto omicida in danno di Borsellino.

Ed ancora: Calogero Ganci, oltre a riferire del progetto di attentato in danno di Borsellino, dichiara che, dal periodo in cui veniva istruito il maxi-processo di Palermo, «il dottor Falcone e il dottor Borsellino erano un chiodo fisso per Salvatore Riina. Alcune volte io ci sentivo dire: “A chissi c’hammu a rumpiri ‘i corna – dici – non ci dimentichiamo”».
«Le emergenze processuali evidenziano quindi in modo incontestabile che Cosa Nostra perseguiva da tempo l’obiettivo di uccidere Paolo Borsellino – scrivono quindi i giudici nella motivazione della sentenza – e che i progetti di attentato ai suoi danni trovavano la loro causa nell’efficace attività giudiziaria svolta da questo magistrato per contrastare il dilagare del fenomeno mafioso, le cui propaggini si erano estese a vari settori del tessuto politico, economico e sociale non solo a livello regionale, settori sui quali esercitava un perverso effetto inquinante. La sia pur sintetica ricostruzione dell’attività giudiziaria svolta da Paolo Borsellino conferma in modo evidente questa causale».

Borsellino era un condannato a morte. Come Falcone. Eppure Cosa Nostra decide di ucciderli in un preciso periodo storico. Il periodo in cui l’inchiesta mafia-appalti inizia a prendere forma. Ad indagare comincia Giovanni Falcone insieme al Ros, innescando la bomba del risentimento di Cosa Nostra che esploderà definitivamente quando, alla guida degli Affari penali, Falcone farà in modo che la mafia perda, sul piano processuale, i favori di cui sino a quel momento aveva, per caso o per piacere, beneficiato. Borsellino, invece, pagherà con la vita l’aver ostinatamente proseguito lungo la direzione investigativa della Tangentopoli siciliana a seguito della morte del collega e amico. Convinto com’era che Falcone s’era inimicato irrimediabilmente Cosa Nostra per via del tentativo di scoperchiare il vaso di Pandora del controllo dei lavori pubblici da parte dei corleonesi.
Che le due stragi siano collegate, in fondo, è verità processuale prima che storica. E che entrambe siano legate da quel sottile filo rappresentato dal fascicolo mafia-appalti è convinzione di numerosi magistrati siciliani, ad eccezione dei sostituti procuratori di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo che hanno invece abbracciato la causa della Trattativa Stato-mafia cercando di dimostrarne l’esistenza anche quando la tesi accusatoria ha cominciato a sgretolarsi lentamente tra le loro mani.
Ai tempi in cui era a capo della procura di Caltanissetta, Francesco Messineo relaziona con queste parole la volontà di Falcone e Borsellino di voler far luce sul sistema di assegnazione degli appalti pubblici in Sicilia e la loro relativa morte: «Quelle indagini avrebbero avuto un impatto dirompente sul sistema economico e politico italiano ancor prima, o al più contestualmente, dell’infuriare nel Paese della cosiddetta “Tangentopoli” ».
[…] La mafia è avvisata. E ai corleonesi non sfugge il senso delle dichiarazioni di Falcone. Fatte in occasione di quel convegno ma anche in altre sedi.
«…Ma perché praticamente il dottore Falcone… io leggevo quello che il dottore Falcone mandava a dire tramite i giornali, e ad un certo punto, praticamente… e poi sentivo anche gli ambienti di ‘Cosa Nostra’, gli ambienti imprenditoriali e praticamente tutti dicevano che sapevano che il… ‘Cosa Nostra’ aveva fatto votare per i socialisti. E poi debbo dire che una volta Falcone fece un preciso riferimento a livello di giornale quando la Ferruzzi fu quotata in borsa, disse che… l’indomani uscì un articolo sul ‘Giornale di Sicilia’ che aveva ragionevoli motivi da pensare che da un certo momento quel… la mafia era stata quotata in borsa. Lui ben sapeva, secondo me, il… che questo gruppo appoggiava Gardini», dirà il collaboratore di giustizia Angelo Siino.