di Giancarlo Tommasone
L’evasione di Robert Lisowski (polacco recluso per omicidio) dal carcere di Poggioreale, rappresenta, naturalmente, un caso di estrema gravità. Mentre le forze dell’ordine sono al lavoro per mettersi sulle tracce del fuggitivo e riassicurarlo alla giustizia, ci si chiede come sia riuscito il 32enne, a calarsi indisturbato, con una corda fatta di lenzuola, da uno dei muri di cinta del penitenziario napoletano, facendo poi perdere le proprie tracce. Stylo24 ha raccolto la testimonianza di un ex detenuto (proprio presso la casa circondariale partenopea), per provare a comprendere in che modo sia potuta avvenire una azione del genere.
Lisowski si è allontanato mentre i detenuti stavano raggiungendo la cappella per la messa. Qual è il percorso da compiere per partecipare alla funzione religiosa?
«Una ventina di minuti prima che inizi la messa, chi ha fatto precedente richiesta, viene fatto uscire dalla cella e incolonnato. Ci si deve immaginare i reparti come una sorta di stanze di ospedale, solo che al posto del caposala, c’è un poliziotto penitenziario».
Poi che cosa succede?
«Ci si avvia verso la cappella, sempre incolonnati, come gli alunni di una classe scolastica, e comunque piantonati dagli agenti di custodia. Che sono nell’ordine di un paio di unità al singolo gruppo, proveniente dai diversi padiglioni. Un paio di poliziotti sono presenti anche durante la funzione religiosa. Quando questa termina, avviene il percorso a ritroso».
La sorveglianza è molto stretta?
«Relativamente alle volte a cui ho preso parte alla messa, ho potuto appurare che la sorveglianza non fosse proprio strettissima, comunque i controlli si effettuavano. Avveniva una perquisizione, per impedire che il detenuto non recasse con sé, ad esempio, oggetti atti ad offendere gli altri».
Il muro di cinta «affrontato» dall’evaso, è lontano dalla cappella?
«Posso dire che sia dal percorso che ci portava alla cappella, sia dallo spazio che utilizzavamo durane il “passeggio” (la socialità durante l’ora d’aria, ndr), non ho mai avvertito la vicinanza “diretta” del muro».
Cosa vuol dire con vicinanza “diretta”?
«Mi riferisco soprattutto allo spazio utilizzato quando usufruivamo dell’ora d’aria. Per cercare un “ideale contatto” con l’esterno, il muro di cinta era la prima cosa che provavo a fissare, ma mi rendevo conto che era difficile raggiungerlo perfino con lo sguardo. Perché tra lo spazio in cui eravamo noi e il muro, c’era una specie di fossato. E se pure qualcuno si fosse “avventurato” avviando un’azione del genere, c’è da fare i conti col fatto che eravamo costantemente monitorati».
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Che idea si è fatta relativamente alla dinamica dell’evasione?
«Personalmente credo che si tratti di qualcosa di “organizzato” e “preparato” e che ha visto la collaborazione di diverse persone. Perché, ribadisco, evadere come ha fatto il 32enne polacco, appare qualcosa di effettivamente non semplice (se non impossibile) da fare, per un solo uomo».