di Giancarlo Tommasone
Dalla relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia (gennaio-giugno 2018) emergono, tra gli altri, due aspetti di particolare rilevanza riguardo al fenomeno camorristico. Il primo ha a che fare con la trasformazione che si registra nelle piazze di spaccio di Secondigliano e Scampia. Il secondo è relativo alle caratteristiche dei clan della provincia partenopea e casertana. Una indagine svolta a febbraio del 2018 ha riguardato i gruppi Di Lauro e della Vanella Grassi, attivi a Secondigliano e a Scampia e dediti al controllo delle piazze degli stupefacenti.
E’ stato rilevato, come dopo i colpi inferti da forze
dell’ordine e magistratura, i gruppi abbiano adottato
una diversa modalità di rivendita della droga,
ricorrendo ai «passaggi di mano».
Una riorganizzazione dettata anche dalla minore disponibilità di uomini. I gruppi, invece di servirsi di una «complessa organizzazione per la distribuzione al dettaglio delle dosi nelle varie piazze di spaccio (con la nomina di capipiazza, venditori, sentinelle, vettori ecc.), vendono quantitativi maggiori a “grossisti” (clan di camorra, altri gruppi criminali organizzati, o anche a singoli), applicando una maggiorazione (nel gergo indicata come “punti”) sul prezzo iniziale di acquisto ad ogni passaggio».

Effettivamente, utilizzando questo sistema, i profitti sono più contenuti rispetto a quelli derivanti dalla distribuzione di stupefacente al dettaglio, ma risulta essere meno dispendioso dal punto di vista delle energie da profondere. Inoltre non necessita di una «capillare organizzazione di risorse umane e, soprattutto, rende meno “visibile” alle forze di polizia il sodalizio cui fanno riferimento tali traffici».
Occupandoci invece del suindicato secondo aspetto che emerge dalla relazione, quello relativo ai clan della provincia napoletana e casertana e ai gruppi che operano nell’area nord del capoluogo partenopeo, questi vengono considerati maggiormente stabili rispetto a quelli napoletani (cittadini in senso stretto). Che, come abbiamo visto, nell’ultimo periodo, somigliano sempre più a formazioni snelle e leggere tipiche delle cosche emergenti e addirittura delle baby-gang.

In provincia di Napoli e di Caserta è presente «un diverso tessuto criminale», in esso le locali organizzazioni, «benché fortemente colpite da provvedimenti cautelari personali e patrimoniali e da pesanti sentenze di condanna, mantengono salda la capacità di consenso e legittimazione su gran parte della collettività, grazie ad un’immutata forza di intimidazione ed assoggettamento», è sottolineato nella relazione.
A ciò si aggiunga l’appeal esercitato da detti
gruppi nei confronti di nuovi soggetti da affiliare.
I clan in oggetto possono contare su una notevole forza economica, che non solo dà la possibilità di retribuire gli accoliti per le attività illecite che eseguono, ma si tramuta pure nella garanzia «di offrire una vera e propria assistenza legale agli indagati, assicurando il mantenimento dei familiari in caso di detenzione».
Altro strumento di coesione è rappresentato
dalla presenza di parenti all’interno della gerarchia
di comando, fattore che conferma la centralità della famiglia.
I rapporti di parentela tra i clan, non di rado, vengono imbastiti o rafforzati attraverso matrimoni tra giovani di gruppi diversi, caratteristica quest’ultima tipica delle cosche della provincia, molto simili, sotto questo aspetto, alle ’ndrine calabresi. Negli anni Novanta, l’esperimento fu effettuato, con scarso successo e gravi ripercussioni sugli equilibri futuri dei gruppi camorristici in lizza, anche da due clan cittadini, quello dei Giuliano e quello dei Mazzarella.