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Home Inchieste e storia della camorra

L’ascesa del clan Batti: quando il Vesuviano si trasformò in «Far West»

di Redazione
17 Maggio 2019
in Inchieste e storia della camorra
Tempo di lettura: 4 minuti
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di Giancarlo Tommasone

Li chiamano i «milanesi» i fratelli Batti, soprattutto per gli affari lombardi del capostipite Salvatore, ma pure perché, in effetti, sono nati nella città meneghina. Secondo gli inquirenti, Luigi (42 anni), Alfredo (35) e Alan Cristian (32) sono a capo di un gruppo che ha la sua roccaforte a San Giuseppe Vesuviano, ma che opera da anni anche a Terzigno. Il blitz nei confronti dell’organizzazione è scattato lo scorso martedì e ha portato all’esecuzione di nove misure cautelari in carcere e di altre due ai domiciliari.

L’attenzione degli investigatori sulla compagine dei Batti si focalizza, con maggiore intensità, alla fine del 2013, anno in cui si registrano due fatti di sangue che testimoniano delle frizioni in atto sul territorio, tra compagini malavitose. Il primo avviene, il 28 aprile del 2013, a Terzigno.

Gli scontri
a fuoco
tra il nuovo gruppo
e le compagini
malavitose rivali

Un litigio al bar tra Alan Cristian Batti e Luigi Avino, fa da prologo a una scena da «Far West» vesuviano. Dopo la lite, è scritto nell’ordinanza, «Luigi Avino si allontanava in auto con il cognato, inseguito dai fratelli (gemelli, ndr) Alan Cristian e Omar Batti e dal cognato di questi ultimi. Ne scaturiva un conflitto a fuoco, nel corso del quale venivano esplosi numerosi colpi di pistola, di cui taluni trapassavano la carrozzeria della vettura di Luigi Avino, attingendolo all’addome; altri colpi, invece attingevano alla carrozzeria la vettura degli inseguitori».

L’inseguimento e la sparatoria
in pieno stile «Far West»

Naturalmente, in detta occasione, nessuno di coloro che avevano assistito all’inseguimento e alla sparatoria, aiutò gli investigatori a fare luce sull’accaduto. Il secondo episodio si registra il 27 settembre del 2013, quando, nel corso di un agguato, viene ferito Mario Nunzio Fabbrocini (classe 1986), ritenuto dagli inquirenti, l’armiere del gruppo Batti ( e arrestato nel corso dell’operazione di martedì 14 maggio). «Marco Nunzio Fabbrocini – è riportato nell’ordinanza – veniva attinto da alcuni colpi di arma da fuoco; Fabbrocini avrebbe reso per tale vicenda denuncia a carico di ignoti per rapina (…) ma risultava evidente (da successivi riscontri investigativi) che il ferimento di Fabbrocini dovesse ricondursi ad uno scontro tra gruppi contrapposti».

I fari degli inquirenti si accendono
con forza sui fratelli «milanesi»
a partire dalla fine del 2013

Da detto scontro emergerà, annotano ancora gli inquirenti, il gruppo Batti, in tutta la sua forza e in tutto lo spessore criminale che contraddistingue l’organizzazione. Tornando agli arresti di martedì scorso, a condurre l’operazione i militari dell’Arma del Nucleo investigativo di Torre Annunziata e le fiamme gialle del Nucleo di polizia economica finanziaria di Salerno.

Due le ordinanze emesse
dal gip del Tribunale
di Napoli su richiesta
della locale Dda

Gli indagati rispondono di associazione per delinquere di stampo mafioso, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di arma da fuoco, estorsione e violenza privata, «aggravate dal metodo mafioso e dallo scopo di favorire il clan Batti», sottolineano gli inquirenti. La prima ordinanza trae origine da un’attività di indagine svolta tra la fine del 2013 e la fine del 2014. La seconda, relativa a un’inchiesta del 2015, è condotta dalla Finanza di Salerno, e si focalizza sul racket del narcotraffico.

L’ira del boss per il carico
di cocaina finito sotto sequestro

Illuminante, per comprendere il livello raggiunto dal gruppo malavitoso (dal punto di vista degli affari illeciti, della forza economica e di quella di intimidazione, perpetrata addirittura nei confronti degli stessi presunti affiliati), è un episodio che risale a gennaio del 2015. Il clan aveva incaricato alcuni operatori portuali di agevolare l’uscita, dal porto di Salerno, di una partita di 40 chili di cocaina. Lo stupefacente era stato imbarcato su una nave proveniente dall’Ecuador e nascosto nel vano motore di un container frigo che «ufficialmente», conteneva banane.

Il container era rimasto a bordo per problemi burocratici ed era ripartito, sulla stessa nave, alla volta di Rotterdam. Giunto nel porto olandese, lo stupefacente era stato finalmente scoperto e aveva procurato una perdita per il clan, di 1,2 milioni di euro (a tanto ammontava il valore della cocaina sequestrata dalle forze dell’ordine). La reazione di Alfredo Batti, nei confronti di coloro che riteneva responsabili della perdita del carico, non si era fatta attendere. Pretendeva di essere risarcito e per far sì che ciò avvenisse, non aveva risparmiato pressioni e minacce, «perpetrate – è riportato nell’ordinanza – sia attraverso pestaggi, sia con l’esplosione di colpi d’arma da fuoco».

Il permesso di operare
con il narcotraffico
a San Giuseppe Vesuviano
dato dal clan Fabbrocino

Tali azioni intimidatorie «costringevano uno degli indagati a vendere la propria abitazione per consegnare al capo dell’organizzazione il denaro perso». Il gruppo dei «milanesi», secondo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, dal 2008 avrebbe avuto il permesso di spacciare stupefacenti a San Giuseppe Vesuviano dal clan Fabbrocino, in cambio del versamento di una quota sui proventi all’organizzazione fondata da ’o gravunaro. Così era conosciuto all’anagrafe di camorra il defunto boss Mario Fabbrocino.

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