Immaginate un cestino di frutta. Un cestino di quelle splendide arance di Sicilia dal succo color sangue. Pensate ora che, per trasportare quelle arance sulle nostre tavole, sulle tavole di milioni di persone, si siano accordate due delle più grosse e agguerrite aziende del Sud Italia per spartirsi un giro d’affari milionario. Da centinaia di milioni all’anno. E che, per proteggere il business, queste aziende abbiano ingaggiato killer professionisti, minacciando, incendiando, ammazzando uomini e imprese, snaturando un mercato che resisteva da almeno due secoli. Sono finiti in galera molti dei loro dipendenti, in questi mesi. E altri aspettano di varcarne la soglia, prima o poi. Ogni volta che sbucciate un’arancia, che snocciolate una ciliegia, che addentate una fragola, che spaccate in quattro una mela o che sbocconcellate una pesca; ogni volta che, rigirandovi lo scontrino tra le mani, vi domanderete com’è che la frutta costa così tanto, ricordate quanto hanno scoperto i pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli.

L’«arancia connection» ha una capitale: Casal di Principe. E una data d’inizio. L’alba del Duemila. È allora che è nato il grande accordo di cartello che i tagliagole della provincia di Caserta hanno stretto con la mafia siciliana per la conquista, in regime di monopolio, del ricco mercato del trasporto ortofrutticolo nel Centro-Sud Italia, con la contestuale estromissione dal lucroso giro d’affari delle organizzazioni criminali campane e calabresi che pure, in anni precedenti, vi avevano allungato gli artigli. I principali protagonisti del patto, gli attori di questa storia, si chiamano Francesco Schiavone (cugino del boss Sandokan, conosciuto all’anagrafe di camorra col soprannome di Cicciariello), suo figlio Paolo, Paolo e Carlo Del Vecchio (padre e figlio anche loro) e Costantino Pagano. I comprimari sono soldati e graduati della cosca casertana e delle famiglie siciliane, colletti bianchi e procacciatori d’affari, picchiatori, esperti e venditori d’armi.

Lo strumento di penetrazione e di controllo dei mercati è un’anonima società casertana, che prende il nome dal titolare: «La Paganese trasporti & c. snc» di Costantino Pagano. La ditta ha sede nel Comune casertano di San Marcellino e, inizialmente, si occupa del trasporto su gomma dei prodotti ortofrutticoli verso Fondi e le aree comprese tra Aversa, Trentola Ducenta e Parete. La vicinanza del proprietario alla famiglia Del Vecchio e, tramite questa, direttamente al vertice della mafia di Casal di Principe (e, dunque, ai più stretti parenti di Sandokan) comporta una straordinaria accelerazione nella sua crescita commerciale. Aumenta il parco-automezzi, si moltiplicano i clienti e cresce il suo fatturato. Cresce a dismisura. In provincia di Caserta tutti sanno che la «Paganese» è «un investimento dei Casalesi» e che, per questo motivo, nessuno può osare metterne in discussione la leadership commerciale, anche se il servizio spesso lascia a desiderare e i costi siano tutt’altro che competitivi. Nemmeno gli uomini della ’Ndrangheta calabrese. Ci sarebbero altri vettori, altre ditte capaci di fare meglio e a prezzi più contenuti, ma la concorrenza non è un fiume che scorre da queste parti.

La «Paganese», peraltro, nemmeno si preoccupa di perfezionare il servizio, o di renderlo più efficiente. Le basta avere le spalle coperte e una buona scorta di armi da fuoco con cui far fuori i potenziali concorrenti. Si sentono talmente sicuri, i manager dei Casalesi, che nemmeno si preoccupano di nascondere le pistole e i fucili quando s’incontrano nel piazzale della società. Le armi fanno parte del kit di lavoro, come la patente, la tessera Viacard o i buoni-benzina.
In poco meno di dieci anni, la «Paganese» conquista i mercati ortofrutticoli di Giugliano, Nocera-Pagani e Fondi (il più grande d’Europa), estendendo il proprio giro d’affari verso la Sicilia e l’Abruzzo e sbaragliando i rivali che, di volta in volta, avevano cercato di frenarne l’ascesa: i Mallardo, i Panico del Napoletano, e i De Stefano di Reggio Calabria. Le intercettazioni ambientali allegate agli atti dell’inchiesta fanno accapponare la pelle e indicano, meglio di qualunque trattato di sociologia o di economia, com’è che funziona la «camorra spa».
È Costantino Pagano a parlare, nel suo ufficio imbottito di cimici: «Mettetevelo nel cervello… all’esterno a guardare una certa situazione è facile… ma a portarla avanti dall’interno non è facile… per mantenere l’equilibrio di tutto questo casino non è facile… per mantenere la Paganese come si sta mantenendo da sette anni non è facile perché sta il problema con quello a Catanzaro andiamo a sparare… ci sta il problema con il marocchino a Fondi ed andiamo a sparare al Marocchino… abbiamo un problema con questo a Giugliano… andiamo a sparare a questo a Giugliano… andiamo a sparare a quello a Nocera… non è facile…».
Sembra Rambo, a sentirlo. Eppure è un ex padroncino che ha deciso di fare il grande salto e di mettersi sotto l’ala protettrice degli Schiavone per diventare uomo d’onore.
Gli è andata bene, fino a quando non ha incrociato il pm della Dda, Cesare Sirignano, che gli ha fatto terra bruciata attorno. Il pubblico ministero gli ha sequestrato camion, soldi, beni, terreni. E ha scoperto, per la prima volta in Italia, che i Casalesi facevano affari con la famiglia di Totò Riina. Droga, estorsioni, contrabbando? Macché: facevano soldi con i cestini di frutta. Con le arance rosse di Sicilia e con le fragole.