di Giancarlo Tommasone
L’attività estorsiva del clan Contini, spesso oltrepassa i confini partenopei e campani, e viene condotta ai danni di commercianti del centro e del nord Italia. Tra i casi individuati dagli inquirenti, c’è quello di un imprenditore toscano, che finisce nella morsa della cosca. Viene riportato nell’ordinanza a firma del gip Roberto D’Auria, e relativa all’ultima inchiesta effettuata nei confronti del cartello che va sotto il nome di Alleanza di Secondigliano.
Le indagini, l’attività di intelligence
Nella morsa del clan
finiscono
anche imprenditori
del centro
e del nord Italia
Dalle indagini «emerge chiaramente – scrive il giudice per le indagini preliminari – come Giuseppe Ammendola, Antonio Cristiano e Vincenzo Tolomelli, con l’ausilio di Alessandro Boselli e Giuseppe Perillo, avessero creato una struttura ben articolata finalizzata a riciclare e reinvestire il denaro del clan, anche attraverso prestiti ad imprenditori in difficoltà economica».

Nel caso del commerciante toscano, «gli indagati – argomentano gli inquirenti – costringevano strumentalmente la vittima ad emettere assegni che giustificassero il pagamento illecito in favore di un soggetto esercente attività commerciale».
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L’espediente risultava essere necessario per creare «apparenza di liceità», confondere le acque e ostacolare i controlli da parte delle forze dell’ordine, relativamente alla «causale» e ai reali destinatari dei versamenti . Il soggetto «pulito» era stato individuato, nel caso specifico, in Giuseppe Perillo, cognato di Antonio Cristiano, e titolare di un’azienda di abbigliamento che «consentiva ai sodali di giustificare l’introito».
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La vittima, per onorare il debito, si vedeva quindi costretta a versare il dovuto nelle mani di «Giuseppe Perillo mediante l’utilizzo di assegni (dati in garanzia), talvolta non a lui intestati». Assegni, che in diverse occasioni, appartengono addirittura alla madre dell’imprenditore.
Proprio questi
ultimi titoli vengono
ritenuti dagli indagati,
«i migliori»
«Il fatto del regolamento (dell’imprenditore), non devi preoccuparti, non c’è problema, perché lui finisce gli assegni che ha fuori, quelli della madre, che sono proprio ottimi, che tu mi dicesti sono i migliori (…) tu ti regoli con gli assegni della madre, è meglio che non ti dà altri assegni», queste le parole che emergono nel corso di una telefonata intercettata dagli investigatori.
Il fatto che gli assegni (presumibilmente tutti coperti e non postdatati) fossero «staccati» dalla madre dell’imprenditore, rappresentava, evidentemente una ulteriore forma di «filtro», poiché non metteva in relazione diretta il debitore con il beneficiario collegato alla cosca (nel caso il cognato di Cristiano).
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Per prendere accordi circa la restituzione del debito, Antonio Cristiano si reca personalmente ad Arezzo, per concludere – come denunciano le intercettazioni – un non meglio «noto affare» con il commerciante. Quest’ultimo, benché fosse vittima di estorsione da parte del clan, «presenta altre persone al cospetto del sodalizio criminale», fungendo da una specie di «procacciatore di affari». Ma l’imprenditore toscano finisce presto per trovarsi in più gravi difficoltà, alimentando un meccanismo distruttivo. Accade quando non riesce a coprire gli assegni (postdatati) dati in garanzia. A questo punto, la vittima, si vede costretta a contrarre un nuovo debito con gli esponenti del sodalizio criminale.