“Odio perdere più di quanto ami vincere” (Brad Pitt, alias Billie Beane, ne ‘L’arte di vincere’, film del 2011

Billie Beane, general manager degli Oakland Athletics, squadra di baseball della Major League americana, all’indomani di una stagione deludente, si vede negare dalla società un aumento del budget per poter competere con le squadre più ricche della lega.
Per la costruzione della squadra si affida allora alla bizzarra teoria di Peter Brand, giovane laureato in economia, con idee radicali sul come valutare un giocatore, ed eventualmente procedere al suo ingaggio.

L’allenatore della squadra, interpretato dal mai troppo rimpianto Philip Seymour Hoffmann, non è assolutamente d’accordo con la nuova strategia e spesso si rifiuta di schierare in campo i misconosciuti elementi acquistati dal bizzarro duo dirigenziale. Ma Billie non ammette ostacoli alla realizzazione della sua idea ed arriva al punto di cedere anche l’ultima stella rimasta in organico pur di costringere l’allenatore ad impiegare i nuovi acquisti. Incredibilmente i risultati, dopo un inizio tremendamente farraginoso (leggi sconfitte in serie), cominciano ad arrivare e, seppure la squadra non riuscirà ad arrivare al titolo, la sua annata sarà poi ricordata per sempre come una delle più memorabili della storia del baseball.

Il preambolo è necessario a chi ha la pazienza di leggermi e non avesse la fortuna di conoscere il film. Ma la citazione dello stesso non deve portarvi ad immaginare che ci siano parallelismi particolarmente calzanti: gli Oakland non sono il Napoli, non c’è un De Laurentiis, non c’è un Sarri, non c’è un Giuntoli. Speriamo anzi che, al contrario, ci sia un titolo, altrimenti detto Scudetto. Ma c’è nel parallelismo la forza ed il propellente di un’Idea da portare avanti al di là di ogni più che ragionevole dubbio.

L’Idea, che abbiamo in questa sede già fortissimamente propugnato, è quella della vittoria attraverso la bellezza, in quanto la bellezza è contemporaneamente causa e conseguenza dell’eventuale trionfo. Quando il Napoli spettacolarmente disegna trame che conducono al goal, e le telecamere scivolano sui volti felici dei tifosi azzurri, mi sono sorpreso a scorgere non soltanto volti sollevati dalla tensione in un urlo liberatore e bellamente aggressivo, ma anche, se non soprattutto, infiniti sorrisi ed occhi ammirati ed illuminati dall’arte messa in essere. Quegli stessi sorrisi che campeggiano solari sui volti dei nostri eroi, felici di essere felici e di regalare felicità.

Ecco… i nostri eroi amano vincere. Ma la domanda è un’altra, e sorge spontanea dopo aver visto contro la Roma una squadra capace per tutti i novanta e più minuti di disegnare calcio a dispetto del punteggio che indecorosamente regnava sovrano dicendo ben altro dalla vittoria. La domanda è: i nostri eroi odiano perdere a sufficienza?
Nel loro viaggio fantastico verso il sogno, comprendono davvero che la sconfitta può possibilmente far parte del percorso, o l’incontro con essasconfittachesiamaledetta rappresenta un ostacolo letale ed irrimediabile? Non vorrei mai e poi mai accostarmi all’orripilante assunto di matrice juventina, che va affermando una evangelica verità che attribuisce al ricordo dei posteri solo e soltanto chi viene ad essere segnato sull’albo d’oro.

E di esempi in merito ce ne sono e ce ne saranno ancora: il mondo ricorda l’Ungheria del 1954, l’Olanda del quadriennio 1974/1978, l’Italia di Highbury sconfitta dagli allora Maestri Inglesi del 1934, o ancora ricorda con amore il magnifico ciclista Puolidor o la statuaria bellissima Merlene Ottey. É orribile asserire che conta solo chi vince. Senza nessuna forma di ironia rassicuriamo l’ottimo Allegri che chi ama il calcio ricorderà certamente la sua ottima Juventus seconda per due volte in Champions League negli ultimi tre anni, e la ricorderemo perché sconfitta con onore da due fantastiche squadre quali Barcellona e Real Madrid, e anche perché magnifico era stato il percorso per arrivare fin lì.

E, con infinita umiltà, addirittura prendiamo, della sua antisportiva affermazione, quello che di buono essa inconsapevolmente contiene. Forse è vero: per poter arrivare al massimo traguardo è necessario l’odio per la sconfitta.
Odiare perdere aiuta a rimediare un pareggio laddove si meriterebbe la sconfitta, e qualche volta una vittoria laddove si meriterebbe un pareggio. Il Napoli ha tutti i punti che si merita, che sono tantissimi, e costituiscono il record dei record della storia di questa società (non bisogna mai dimenticarlo altrimenti si denuncia scarsa conoscenza di chi siamo e fin dove possiamo arrivare… il Comandante parla correttamente di “territori inesplorati”), ma forse potremmo avere addirittura qualche punto in più laddove riuscissimo a far nostro il dettato di Billie Beane. E se, come credo fortissimamente, la nostra Idea di bellezza non può contemplare la parola odio, almeno proviamo a fare nostro un sentimento per la sconfitta che possa configurarsi come una simpaticissima ma fortissima Antipatia.

PS: … e per risollevare il nostro animo depresso ci sia di conforto anche lo straordinario José Saramago che una volta ha scritto: “La sconfitta ha qualcosa di positivo: non è definitiva. In cambio la vittoria ha qualcosa di negativo: non è mai definitiva”.
Azzurramente, Peppe Miale
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