Animo sensibile, intellettuale profondo, sapeva stare vicino e dare voce a chi non aveva nulla
di Serena Trivelloni
Unico, geniale, mai dimenticato. Il 24 maggio del 1900 nasceva a Napoli Eduardo De Filippo. L’artista rivoluzionario, che con sguardo lungimirante ha saputo raccontare i suoi tempi, trasversale alle classi, descrivendo il peregrinare eterno dell’uomo, dentro e fuori dalla famiglia, dentro e fuori dalla società, dentro e fuori sé stesso. Se dovessimo raccontare alle nuove generazioni chi o cosa è stato Eduardo, lo definiremmo l’uomo delle grandi commedie, capace di profonde e umane verità, con un rispetto, quasi sacro, per il suo teatro e palcoscenico. «Saje quanno se chiagne? Quanno se conosce ‘o bbene e nun se pò avè! Ma Filumena Marturano bene nun ne conosce…. » una delle profonde «verità» scolpite nella memoria e nella storia della commedia italiana.
Nel corso di un’intervista televisiva, ad un giornalista che gli chiese cos’altro avrebbe potuto fare o essere nella vita, dopo una lunga pausa, rispose che avrebbe potuto fare solo quello che ha fatto, l’attore. Un altro uomo, nella sua posizione, avrebbe potuto dire: io sono anche un drammaturgo, uno scrittore, un intellettuale, un pedagogo, un professore, un senatore… E invece no. L’unica immagine venuta in mente a De Filippo, pur essendo di fatto tutte queste cose insieme, fu quella interna che gli corrispondeva di più.
Per Eduardo salire sul palco non significava solo raccontare uno spaccato di vita e di realtà, ma voleva dire soprattutto mettersi a nudo, toccare con mano «Il gelo del teatro e la solitudine del camerino», che significava essere da soli, saper rimanere di fronte a se stessi. Una lezione di profonda libertà, autocoscienza e autodeterminazione, preziosa per chi tenta di percorrere in punta di piedi la strada di questo arduo mestiere.
Eduardo è stato anche l’uomo della ricostruzione
Perché l’Italia ha sempre avuto bisogno nel corso della storia di essere costruita e ricostruita: parliamo di un Paese che nella sua democrazia imperfetta ha sempre lasciato indietro qualcuno. Ed era proprio questo qualcuno o qualcosa rimasto fuori dalla storia che interessava a De Filippo, come dimostrano molti suoi gesti: dalla ricostruzione del Teatro San Ferdinando ridotto in macerie, al lavoro per i ragazzi del carcere minorile di Nisida.
Tutto partiva dal fatto che aveva imparato il mestiere interpretandolo come un lavoro duro, quasi sacro: il padre Eduardo Scarpetta lo inchiodava alla sedia e gli faceva ricopiare per ore dialoghi delle sue commedie e testi di altri scrittori, senza però riconoscere mai davvero la libertà e il talento del figlio. Un’interessante rappresentazione l’abbiamo vista di recente in «Qui rido io», film del regista Mario Martone, con un eccellente Toni Servillo nei panni di Scarpetta e Alessandro Manna in quelli di Eduardo De Fillippo.
Una scena e uno scambio di battute rimane particolarmente impressa negli occhi e nella mente dello spettatore nel corso del film, quando Peppino, fratello di Eduardo, tenta di scappare dalla «prigione» imposta dal padre. Eduardo, nel tentare di fermarlo, sentenzia: «Vuoi davvero essere libero? E allora sali su quel palco, perché quella è l’unica libertà che possediamo». Animo sensibile, intellettuale profondo, sapeva stare vicino e dare voce a chi non aveva nulla. Il suo volto antico, ma per alcuni versi estremamente attuale, continua a viaggiare nella storia della cultura italiana, i pieni e i vuoti delle sue rappresentazioni teatrali continuano ad accompagnare il nostro cammino, così come la grande eredità umana e artistica lasciata a suo figlio Luca, in una delle poesie più belle di sempre:
«Si te veco: me veco.
Si mme vire: te vire.
Si tu parle, c’è l’eco
e chist’eco song’i.
Si te muove: me movo.
Si te sento: me sento.
Si me truove, te trovo…
Si me trovo, si tu»