di Giancarlo Tommasone
Alla parete i quadri di Padre Pio e della Madonna dell’Arco, sul tavolo la pistola appena sfilata dai pantaloni per sedersi, ma pure per dichiarare il suo status; sul braccio il solito «pezzo», come nell’ambiente chiamano l’orologio «importante», il Rolex.
Lui è un latitante, un camorrista emergente
braccato dal clan rivale e dallo Stato.
La sua testimonianza è stata raccolta dal giornalista iberico David Beriain e inserita nel video-reportage «Baby Camorra» per il format «Clandestino». Un giovane killer in fuga, uno tra i sicari più temibili e letali in circolazione, che comincia a raccontare proprio il motivo che lo ha spinto alla clandestinità.

Tutto ha origine con un blitz che porta alla morte
di uno degli obiettivi e al ferimento dell’altro.
«Loro stavano in un bar, sapevo chi erano. Sono andato vicino, a uno gli ho sparato in testa, mentre quell’altro è scappato. Mentre scappava gli ho sparato e l’ho preso alla schiena, però alla fine si è salvato», spiega il killer.
Il racconto continua: «Poi questo che si è salvato mi ha cantato (ha fatto il mio nome alle forze dell’ordine, ndr) e perciò adesso sono latitante. Comunque quello che mi ha cantato è un infame, è un pezzo di merda, come dicono a Napoli».
«Io lo ammazzerei – afferma ancora il giovane camorrista -, ma non una sola volta, lo ammazzerei dieci volte». «La persona che hai ucciso era un boss?», chiede Beriain. «No, è brutto parlare di queste cose, preferisco non farlo, è meglio», risponde l’intervistato.
Ma quale aspetto del «sistema» ha attratto il giovane,
tanto da farlo diventare uno spietato sicario?
«Io sono nato in un quartiere poverissimo, per noi i camorristi erano come dei Maradona (vuole intendere che erano degli idoli, ndr). Mi affascinava essere così e ho cominciato a fare rapine, scippi, picchiavo le persone. Dentro di me coltivavo un sogno: volevo fare il salto di qualità per essere più rispettato», spiega ancora il latitante.
Le sue parole diventano più esplicite e dirette: «Quando ammazzi una persona, ti vedono con altri occhi».
Beriain fa notare al killer, che questi ha ammazzato anche
persone che una volta ammirava e che facevano parte dell’organizzazione che tanto lo affascinava da ragazzo.
Tutto ciò non rappresenta un controsenso?
«Sì, lo è. Però purtroppo la vita ti porta a fare determinate cose», risponde. «Io ho ucciso troppa gente, io ho un cimitero sulle spalle – continua – Anche se la prima volta che impugni una pistola per uccidere una persona non è facile, guardarla negli occhi prima di ammazzarla è tragico. Non è per niente facile».
E i rimorsi? «Te li porti addosso, però purtroppo ho fatto una scelta di vita e la porto avanti».
Il killer ha tempo solo per rispondere a un’ultima domanda,
spiega che per lui restare troppo in un posto,
è altamente rischioso. Chiede di essere compreso.
Qual è il più grande rimpianto della sua vita? Se potesse tornare indietro, cambierebbe qualcosa? Domanda il giornalista al sicario. «Non cambierei niente. Non ho rimpianti, non ne ho mai avuti. Quello che ho fatto, l’ho fatto sempre perché l’ho voluto fare. E lo farò sempre», conclude il camorrista, raccogliendo la pistola che in precedenza aveva appoggiato sul tavolo. E’ il segnale che l’intervista è finita.
(VI – Continua)
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