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Home Inchieste e storia della camorra

«Ricordo che dissero: quando lo ammazziamo? Poi il blackout»

di Redazione
24 Novembre 2018
in Inchieste e storia della camorra
Tempo di lettura: 3 minuti
Arturo baby gang Napoli
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di Giancarlo Tommasone

«Io stavo passeggiando per la strada e ricordo anche cosa dissero: quando lo ammazziamo? Poi il blackout mentale». Quando Arturo esce dal buio in cui all’improvviso è piombato, ricorda solo che è «pieno di sangue». Il suo, quello che le ferite di un 17enne hanno riversato a fiotti.

La testimonianza dello studente aggredito da quattro
minorenni nel pomeriggio del 18 dicembre scorso, è stata raccolta
dal giornalista iberico David Beriain, che ha realizzato
il video-reportage «Baby Camorra» per il format «Clandestino».

Arturo è ripreso mentre compie un gesto naturalissimo e così importante per un adolescente: si sta radendo. La camera si ferma sulla cicatrice che gli solca longitudinalmente la gola.

«Mio figlio è stato vittima di quella che si chiama una baby-gang», a parlare è Maria Luisa Iavarone, la madre di Arturo. «Quattro ragazzini molto giovani – racconta Iavarone – lo aggrediscono e lo lasciano quasi morto a terra, attraversato da venti coltellate. Due potenzialmente mortali: una che gli ha perforato il polmone e un’altra che gli ha tagliato due nervi e reciso una corda vocale e la giugulare».
«Questo è un grande danno – continua la madre del ragazzo – ma soprattutto una grandissima ferita all’anima».

Arturo, spiega la donna, è un ragazzo che vive attacchi di panico,
crisi d’ansia, disturbi della concentrazione e disturbi del sonno.

«Rimarrà ferito per sempre», afferma Iavarone. La camera si sposta nel salotto della casa del ragazzo. Seduta sul divano una madre che è diventata il simbolo della lotta alle baby-gang. Perché capitano cose come quella accaduta ad Arturo? Chiede Beriain. «In fondo questi ragazzi utilizzano feroci atti di violenza per un vantaggio personale, per accreditarsi presso la camorra. Hanno bisogno di usare la violenza per manifestare a se stessi e al mondo di essere capaci di gesti di coraggio su un soggetto ritenuto più debole».

E’ qualcosa di incredibile, di terribile, sottolinea il giornalista.

«Sì – riprende Iavarone – è terribile. Uno dei ragazzi che ha aggredito Arturo è alto un metro e 45, un metro e mezzo, quindi molto basso, tanto che lo chiamano il nano. E voleva dimostrare che riusciva ad uccidere uno più alto di lui, perché Arturo è alto un metro e ottanta. Questi ragazzini sono portatori di una violenza cieca».

Beriain le chiede se ha avuto la possibilità
di confrontarsi con gli aggressori del figlio.

«Sono personalmente andata dalla madre di uno degli assalitori di Arturo; quando mi sono recata da questa mamma, mi sono trovata di fronte quello che mi aspettavo: un basso napoletano, un unico ambiente con un letto, la cucina, il frigo, un tavolo e un grande scooter parcheggiato al centro della stanza. Questo è il contesto nel quale vivono migliaia di ragazzi in questa città», spiega Iavarone.

Ma da dove nasce la scelta di parlare della storia di Arturo?

«Pure dal bisogno di voler dare una opportunità anche e soprattutto a questi ragazzi». Conclude la donna. Tornando ai componenti della gang che ha aggredito lo studente, lo scorso 9 novembre tre di essi sono stati condannati in primo grado a 9 anni e tre mesi di reclusione a testa. L’accusa formulata nei loro confronti è quella di tentato omicidio.

(IV – Continua)

Prima puntata
Seconda puntata
Terza puntata

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