di Giancarlo Tommasone
L’evasione dal carcere di Poggioreale, di Robert Lisowski, 32enne polacco, arrestato ieri dalla Squadra Mobile a poco meno di un chilometro dalla casa circondariale, rischia di avere importanti ripercussioni sull’assetto del penitenziario partenopeo. Nelle scorse ore, il Provveditorato regionale della Campania – ha fatto sapere il Ministero della Giustizia – ha annunciato una serie di accertamenti amministrativi interni, «di routine in casi come questi, e ha dislocato alcuni detenuti in altri istituti penitenziari».
Comunque si voglia guardare la cosa, va da sé, che non servono ulteriori giri di parole, per comprendere come sotto la lente di «ispettori» siano finiti e finiranno soprattutto gli agenti della polizia penitenziaria (e con essi i quadri del carcere), poiché deputati al controllo di quanto avviene nella struttura. Che vive una situazione alquanto tragica dal punto di vista dell’organizzazione e del sovraffollamento.
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Di contro, nella casa circondariale di Via Nuova Poggioreale, si fanno i conti, atavici, con l’inadeguatezza del numero di baschi azzurri (costantemente in sotto organico). E coi tentativi di scappare dal carcere intitolato a Giuseppe Salvia, anche nel recente passato. Lo scorso mese di maggio, un 20enne russo, infilandosi in un sacco nero (di quelli utilizzati per la spazzatura) e sperando di essere caricato su un camion della raccolta dei rifiuti, ha provato ad attuare la grande fuga.
I controlli sono scattati in tempo e hanno reso vano il tentativo.
Fallito anche quello che risale a ottobre del 2011. Un detenuto che si trovava al Padiglione Roma, provò a tagliare la corda in un modo molto simile a Lisowski, scavalcando la doppia cinta muraria interna. Il primo salto andò bene, non il secondo: nel corso della «performance» risolutiva riportò fratture ad entrambi gli arti inferiori e invece della libertà, conquistò l’ospedale.
Tornando, invece, all’evasione del 32enne polacco, durata poco più di 36 ore, sono molte le cose che non quadrano.
Come sia possibile che un recluso si allontani indisturbato mentre sta raggiungendo la cappella del carcere per assistere alla messa, recuperi una corda, si aggrappi a una inferriata, raggiunga e si cali da un muro di cinta, resta un mistero.
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A ciò si aggiunga un particolare non certo trascurabile: il 32enne è un soggetto claudicante, non il massimo per uno che ha dovuto compiere l’arrampicata su una inferriata, poi ha dovuto scavalcare un primo parapetto, attraversare una sorta di fossato, arrampicarsi di nuovo e calarsi con una corda fatta di lenzuola.
La «fune» è stata inevitabilmente nascosta prima del tentativo riuscito, poiché quando i detenuti lasciano la cella per recarsi alla messa, vengono controllati. Del resto il 32enne non avrebbe potuto portare addosso la fune, poiché troppo voluminosa e impossibile da occultare.
A questo punto c’è da chiedersi: quanto tempo prima Lisowski ha nascosto la corda fatta di lenzuola, presumibilmente proprio dove è cominciata la sua azione di fuga?
Nel frattempo, fosse stato pure il giorno antecedente, nessuno si è accorto della presenza di quanto era stato precedentemente occultato? Nessuno, in lavanderia, visto che i pezzi sono contati, si è accorto che mancassero delle lenzuola? Altro particolare da non trascurare è quello relativo alle telecamere di videosorveglianza: è mai possibile che non abbiano captato i movimenti dell’evaso? Come mai l’allarme non è scattato? Impianto guasto, oppure le guardie presenti si sono trovate a fare i conti con un vero e proprio fantasma, un essere invisibile che avrebbe portato a termine la sua azione interamente da solo?
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Risulta alquanto singolare, il corto circuito, o meglio, la falla così ampia, registrata sul versante dei controlli. Da chiarire anche la circostanza – e questo è compito degli investigatori – dell’aiuto che Lisowski avrebbe (o meno) avuto da detenuti complici. Aldo Di Giacomo, segretario nazionale del Sindacato polizia penitenziaria, ha escluso quest’ultima possibilità, affermando che Lisowski «ha studiato gli orari, quanti agenti ci sono, i loro turni» e poi ha attuato da solo il piano.
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Una delle due: o ci troviamo davanti a un genio della fuga che ha fatto tutto da sé, e che tra l’altro è in grado, oltre a compiere una impegnativa performance atletica, di non essere rilevato dai «radar»; oppure abbiamo a che fare con una persona che è stata inevitabilmente aiutata, a partire proprio dalla progettazione dell’azione di fuga.