di Giancarlo Tommasone
Costretto a cedere la cappella gentilizia di famiglia, per appianare i debiti contratti con il clan, dai propri figli. E’ solo uno dei tanti episodi riportato nell’ordinanza relativa all’inchiesta contro l’Alleanza di Secondigliano. L’operazione scattata ieri ha portato in carcere 85 persone (al momento Maria Licciardi è irreperibile), 126, in totale, le misure emesse. Gli indagati sono 214. Tutto comincia con un negozio al Ponte di Casanova, seriamente danneggiato a causa dell’allagamento del locale.
Imprenditori in disgrazia,
costretti
a contrarre sempre
più debiti
con il clan Contini
Il momento è critico e le fatture da estinguere con i fornitori si accumulano e per far fronte al dovuto, una coppia di fratelli contrae nuovi debiti. Ma quei soldi da restituire, attraverso un passaggio di mano, risultano essere stati «forniti» direttamente dal clan Contini, e ci sono gli interessi da pagare.
Il debito
di 200mila euro
Successivamente (siamo nel 2007), uno dei fratelli, poi diventato testimone di giustizia e trasferitosi lontano da Napoli, vista la crescente crisi economica e in virtù del fatto che non riesce a far fronte all’esposizione finanziaria, viene «costretto» a contrarre un nuovo debito, sempre con la cosca dell’Arenaccia: si tratta di 200mila euro. I soldi, inizialmente da restituire a Giuseppe Ammendola, dopo l’arresto di quest’ultimo, saranno «appannaggio» di Salvatore Botta.
La decisione
da parte
degli imprenditori
di rivolgersi
all’autorità
giudiziaria
I fratelli, vessati dagli emissari dell’organizzazione camorristica, decidono di rivolgersi all’autorità giudiziaria e denunciano tutto. A raccontare la circostanza della cappella gentilizia venduta per pagare il clan e il coinvolgimento del proprio padre (come vittima), nella vicenda, è lo stesso testimone di giustizia, che nel corso di dichiarazioni rese il 16 febbraio del 2012, afferma quanto segue: «In effetti mio padre è stato coinvolto nella vicenda a causa mia e di un mio zio. So che mio padre sta pagando il debito relativo ai 200mila euro, ma non ha avuto alternativa».
Entrano
in azione
i picchiatori
del clan
Nel corso dell’escussione davanti al pm, il testimone di giustizia, racconta pure come sua sorella sia stata picchiata dagli emissari del clan. Inoltre, dice: «So che dopo le denunce, mio padre fu contattato da una persona che ha fatto da intermediaria per stipulare una sorta di accordo, per effetto del quale mio padre sta pagando. Non so che somma hanno concordato di pagare, ma mio padre chiese garanzie per l’incolumità della nostra famiglia. Se non erro, mio padre ha dato un acconto (al clan) con il denaro ricavato dal pagamento del danno subìto dall’alluvione, da parte della società assicurativa con la quale avevamo una polizza», spiega il testimone di giustizia.
A quest’ultimo, gli inquirenti chiedono: «Per il pagamento della somma, avete ceduto anche una cappella?». «Ho saputo da mia madre – risponde il testimone di giustizia – che mio padre l’ha tartassata per acconsentire a cedere la cappella (gentilizia ubicata nel cimitero di Poggioreale, ndr) a Salvatore Botta».
Alla fine, la cappella, viene ceduta a una terza persona per 110mila euro, soldi che «vengono elargiti in contanti e tramite un assegno circolare».
La cappella
gentilizia
venduta
per 110mila
euro
E che finiscono nella disponibilità di Botta, evidenzia il gip nell’ordinanza. «So che mio padre è stato minacciato per vendere questa cappella, perché me lo ha riferito mia madre. Siamo stati costretti a togliere i nostri familiari dal cimitero», racconta il testimone di giustizia.
Le dichiarazioni
dei pentiti,
Giuseppe De Rosa
e Vincenzo De Feo
A confermare la circostanza dei 200mila euro dati ai due fratelli del negozio del Ponte di Casanova, è il pentito Giuseppe De Rosa, il 13 maggio del 2016. «Mi mandò a chiamare Ciro Di Carluccio e mi disse che dovevo dare 200mila euro ai due fratelli (quelli del negozio, ndr). Li conoscevo perché ero un loro cliente. Questi vennero a casa di mia madre e io gli diedi i soldi», dichiara De Rosa, che aggiunge pure che quei «soldi li cacciò Bosti (Patrizio, ndr)».
Su quanto era stata costretta a pagare a Botta, la famiglia di imprenditori, sono rilevanti le dichiarazioni (rese il 28 gennaio 2010) di un altro collaboratore di giustizia, Vincenzo De Feo. Quest’ultimo ha riferito agli inquirenti che «Salvatore Botta vantava un grosso credito nei confronti dei fratelli (del negozio) a causa del quale, lo stesso (Botta) era entrato in possesso di alcune loro case».